Sono passati quasi sedici anni, c’è già stato un processo in Afghanistan ma c’è ancora un capitolo giudiziario da chiudere sulla storia di Maria Grazia Cutuli uccisa il 19 novembre 2001. Il pm di Roma Nadia Plastina ha chiesto la condanna a 30 anni per i due afgani sotto processo per la morte dell’inviata del Corriere della Sera. Alla sbarra (e collegati in videoconferenza da un carcere del loro Paese d’origine) ci sono Mamur, figlio di Golfeiz e Zar Jan, figlio di Habib Khan, entrambi di etnia Pashtun.

Mamur e Zan Jan sono stati già condannati in Afghanistan rispettivamente a 16 e 18 anni di reclusione. In Italia sono sotto processo per le accuse di concorso in rapina (per essersi impossessati, insieme con altri ancora non identificati, di una radio, un computer e una macchina fotografica appartenuti a Cutuli) e di concorso in omicidio. La sentenza sarà pronunciata il prossimo 29 novembre.

“Siamo arrivati a ridosso del sedicesimo anno dai fatti – ha detto il pm nella requisitoria – e ciò rende questo processo non facilmente comprensibile, ma sin dall’inizio c’è stata la volontà chiara dello Stato italiano di procedere e individuare gli autori di questo fatto delittuoso, ma anche di rinnovare il processo in Italia”. Per il pubblico ministero, “i delitti per cui si procede sono stati qualificati come delitti politici, e la normativa consente di rinnovare questo processo in Italia”. Gli elementi raccolti, per il rappresentante dell’accusa, hanno consentito di accertare che “è stato realizzato un piano organizzato per un bottino. È stata un’azione audace, clamorosa. Mamur ha confessato e ha tirato in ballo Zar Jan. Valutando tutti gli elementi che abbiamo, l’unica ricostruzione possibile è che i due sono i responsabili dei delitti loro contestati, oltre ogni ragionevole dubbio“.

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