La parola d’ordine, alla Casa Bianca, è minimizzare. Negare. Come ha detto ai giornalisti la portavoce di Donald Trump, Sarah Huckabee Sanders: Paul Manafort è stato capo della campagna di Trump “soltanto per alcuni mesi, il tempo necessario a vincere le primarie”; e George Papadopoulos era “un collaboratore volontario”. In realtà le carte che hanno portato all’incriminazione di tre tra i collaboratori/consulenti/amici del presidente dipingono un quadro schiacciante dei rapporti tra l’attuale presidente e Mosca, oltre a scoperchiare un quadro terrificante di interessi segreti. Il silenzio e l’imbarazzo di molti deputati e senatori repubblicani, di fronte alle rivelazioni, sono un segnale della gravità della situazione.

Iniziamo dalla questione Paul Manafort. La difesa ufficiale della Casa Bianca è che si tratti di fatti vecchi, che comunque non c’entrano con la politica e soprattutto con la campagna presidenziale. Si tratta di una difesa debole. Se davvero Manafort, insieme al suo socio Rick Gates, ha riciclato milioni di dollari, creando conti offshore e sottraendo quei soldi al fisco americano, la cosa ha un indubbio valore politico. Quei soldi vennero infatti dati a Manafort dal partito filo-russo di Viktor Yanukovich – per attività di lobbying e per un periodo che va dal 2005 al 2016, quindi ben dentro la campagna presidenziale di Trump.

Se il Cremlino sapeva di quei milioni di dollari, se sapeva dell’attività di evasione e riciclaggio di Manafort, questo poteva costituire un indubbio elemento di ricatto, intrusione, manipolazione nella campagna del candidato repubblicano. Vanno inoltre ricordati altri due fatti. Il primo: Manafort partecipò al meeting del giugno 2016 alla Trump Tower con un’avvocatessa legata al Cremlino – meeting che ha fatto sorgere sospetti di collaborazione stretta tra team di Trump e russi. Il secondo: se Manafort lasciò la campagna di Trump nell’agosto 2016, Rick Gates rimase consulente fino alla fine; fece parte del comitato di inaugurazione, per poi diventare un visitatore regolare della Casa Bianca.

 

La questione legata a George Papadopoulos è, da un punto di vista politico, ancora più significativa. Papadopoulos è infatti il primo collaboratore di Trump a riconoscere esplicitamente e ufficialmente di aver collaborato con i russi per raccogliere materiale compromettente contro Hillary Clinton. Non solo. Papadopoulos ha lavorato per far incontrare Trump e Vladimir Putin e per stabilire una linea di rapporti privilegiati tra la campagna del candidato repubblicano e Mosca. Fu imbarcato nel team Trump a inizi marzo 2016: non come semplice “volontario”, come dice oggi la Casa Bianca, ma con espressioni di giubilo da parte del futuro presidente per il suo team di esperti (c’è anche una foto, twittata da Trump, che mostra Papadopoulos seduto allo stesso tavolo di Trump, intento a discutere di “questioni internazionali”). Oggi Papadopoulos viene incriminato, e patteggia, per un’accusa gravissima: “aver ostacolato l’indagine dell’Fbi sull’esistenza di legami e forme di coordinamento tra membri della campagna e gli sforzi del governo russo per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016”.

Ma osserviamo più da vicino la figura di Papadopoulos. Non ha nemmeno trent’anni quando viene assunto da Trump. E’ un greco-americano, con un master alla University of London e un passato di consulente per un altro candidato repubblicano alle primarie, Ben Carson. Quando entra nel team Trump, il suo compito è chiaro: occuparsi dei rapporti con la Russia. Papadopoulos si mette a lavorare alacremente. Poche settimane dopo essere stato assunto, Papadopoulos vola a Roma, dove incontra un “professore”, così lo definiscono le carte processuali, che in realtà è Joseph Mifsud, ex funzionario diplomatico maltese, oggi in forza alla London Academy of Diplomacy. Mifsud non pare molto interessato a stabilire un contatto con Papadopoulos, sino a quando non viene a conoscenza del fatto che il giovane è nel team di Trump. Il 24 marzo i due si incontrano ancora a Londra. Il “professore” porta con sé una cittadina russa che Papadopoulos descrive in una email come la “nipote di Putin” (in realtà, Putin non ha nipoti). In risposta all’email, un supervisor della campagna di Trump scrive: “Gran lavoro”.

Il 31 marzo Papadopoulos vola a Washington e prende parte al meeting immortalato dalla foto su Twitter. In quell’occasione, spiegano fonti dell’Fbi, dice che potrebbe arrivare a organizzare un incontro tra Trump e Putin. Tornato a Londra, Papadopoulos si dedica all’organizzazione dell’incontro. Scrive alcune email alla presunta nipote di Putin e al “professore”. Il 18 aprile il “professore” gli risponde con un messaggio da Mosca, in cui mette in contatto Papadopoulos con un “individuo influente” per i suoi legami con il ministero degli affari esteri russo. L’“individuo influente” risulta essere Ivan Timofeev, cittadino russo che lavora per l’International Affairs Council e per il Valdai Discussion Club, un istituto che organizza incontri annuali tra accademici occidentali e Putin.

Ancora una volta a Londra, Papadopoulos e Joseph Mifsud si incontrano. Il professore dice che “i russi hanno cose sporche su Hillary Clinton… migliaia di email”. Dopo quell’incontro, i due continuano a comunicare; come continuano le comunicazioni che Papadopoulos ha ormai sviluppato, grazie a Timofeev, con funzionari del ministero degli esteri russo. In ben sei occasioni, Papadopoulos scrive a Washington e chiede alla campagna di Trump di far incontrare il candidato con politici russi. Dice che i russi saran ben contenti di ospitarlo. Si offre per andare a Mosca e preparare il viaggio. Paul Manafort gli risponde che “Trump non farà questi viaggi. Dovrebbe essere qualcuno di più basso livello nella campagna a farli, in modo da non mandare segnali”.

Il resto è cosa risaputa. In estate comincia la pubblicazione da parte di Wikileaks delle email di Clinton. E l’agenzia di intelligence britannica GCHQ avverte la Cia che ci sono stati incontri tra funzionari di Trump e gente dell’intelligence russa. L’inchiesta si sviluppa, fino alla conclusione cui giungono lo scorso gennaio tutte le agenzie di intelligence USA: c’è stato un tentativo da parte del Cremlino di ingerire nelle elezioni americane e far vincere Donald Trump. Papadopoulos potrebbe essere proprio uno degli elementi di collegamento tra Mosca e Washington. Va comunque ricordata una cosa: le eventuali “collusioni” con membri del Cremlino non è, in sé, un reato.

Papadopoulos è stato infatti incriminato non per aver stabilito quei contatti, ma per aver mentito all’Fbi: il giovane collaboratore di Trump ha infatti in un primo tempo testimoniato di aver intrattenuto legami con funzionari russi prima di entrare nella campagna di Trump. In questo senso, ha “ostacolato l’indagine dell’Fbi”. Ciò non toglie che la figura di Papadopoulos diventi ora una minaccia drammatica per la sopravvivenza politica di Trump. Questo trentenne greco-russo è la prova che contatti di alto livello con i russi ci furono – e che furono organici. Papadopoulos potrebbe aver fatto i nomi di altri membri importanti del team Trump, che parteciparono a quella rete di incontri e abboccamenti. Questa rete – insieme ai milioni fatti transitare nei conti di Manafort – potrebbe rivelarsi così tossica per la sicurezza americana da condurre a un’altra decisione (anche questa tutta politica): e cioè la richiesta di impeachment per Donald Trump.

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