“Recitando insieme, volevo che tedeschi e rifugiati si conoscessero a vicenda: non c’è miglior strumento del teatro per ottenere questo risultato” spiega Salome Hagedorn, 25 anni, studentessa all’università di Coblenza. L’appuntamento è alla caffetteria BackWerk, situata in una piazzetta in centro città. Fuori, i tavolini sono affollati di siriani e tedeschi che bevono il caffè. Di fronte a loro c’è una fontana decorata con delle sculture. Su tutto si impone la chiesa che dà sul piazzale. “Ho sparso volantini nei centri dove assistono i richiedenti asilo. Avevo scritto che cercavo aspiranti attori e attrici fra i rifugiati e i tedeschi. I volontari mi hanno aiutato a mettermi in contatto con alcuni afgani e iraniani. All’inizio eravamo in 12: otto rifugiati, 3 tedesche e una francese” racconta la Hagedorn. E, sottolinea, “sono stata sorpresa dalla difficoltà di trovare tedeschi che volessero fare teatro”.
Dopo i primi incontri in una sala in un teatro cittadino, il Kulturfabrik, nel dicembre 2016 sono arrivati i siriani che si avvicendano al posto degli afgani e degli iraniani. “In gennaio abbiamo cominciato a lavorare sugli argomenti dello spettacolo. Le principali difficoltà affrontare sono state la lingua e la preparazione della storia. Ma – precisa – è venuta in nostro soccorso Ruth Retterath, una professionista della pedagogia nel teatro”. Così, i rifugiati hanno cominciato a costruire una storia che viene divisa in sei atti. “I ragazzi non volevano parlare del passato: per loro era traumatico. Il primo atto è stato quindi quello dell’arrivo in Germania”. Il palco è circondato da un nastro adesivo che simboleggia il confine della Germania e i ragazzi lo attraversano. Poi il campo di prima accoglienza e la quotidianità. “Era strano per loro mangiare tutte quelle patate. Infatti, nella seconda parte prendono in giro i tedeschi e le kartoffeln – patate” dice ridendo Solome mentre descrive la scena.
Terza e quarta parte sono dedicate alla difficoltà con la burocrazia e ai costumi sociali. “C’era una ragazza che interpretava la parte dell’impiegata statale tedesca ma parlava in portoghese e i ragazzi le rispondevano in arabo. Volevamo che il pubblico capisse le difficoltà di un nuovo arrivato che ha a che fare con la burocrazia ma non ha la padronanza della lingua”. Le ultime due parti si concentrano sulle difficoltà a scuola e all’indipendenza, cioè al passare dal nulla all’avere una casa. “La vita nel campo era difficile per tutti, specialmente nel 2016 quando il numero degli arrivi era molto alto – ricorda Hagedorn. La mancanza di privacy, il caos, l’affollamento e il limbo fra il passato e il futuro: il non sapere che ne sarà di te”. Mentre parla, alla caffetteria la raggiunge Omar, uno dei siriani che ha recitato allo spettacolo. “La sera della rappresentazione sala era piena. C’erano 140 persone” dice orgoglioso mostrando qualche foto che ha sul cellulare. “Continuerò a fare teatro per raccontare da dove arrivo e com’è la mia vita qui”. Per loro, sottolinea Salome “il benefit è psicologico: si raccontano e si sentono parte di una comunità, una comunità che venendoli a vedere impara a conoscerli e a non provare diffidenza”.
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