Nonostante la cautela nelle previsioni della vigilia, il pronostico è stato rispettato abbondantemente: Fillon e Mélenchon vengono eliminati dalla corsa, Emmanuel Macron e Marine Le Pen diventano gli sfidanti che si contenderanno l’Eliseo al ballottaggio nel secondo turno delle elezioni generali in Francia del 7 maggio. Nonostante il thatcheriano di centrodestra e il rosso-verde di sinistra siano riusciti, rispettivamente, a resistere ai colpi del Penelope gate e a compiere una rimonta quasi prodigiosa (e per certi aspetti insperata), la soglia del 20% resta un elemento rivelatore del primo turno delle Presidenziali in Francia. Il confronto ora è chiaro, e lo era fin dalle prime proiezioni arrivate nella serata di domenica, ed è più aperto e deciso che mai: si affrontano due anime profondamente diverse che incarnano due – quelle maggioritarie, al momento – tra le varie facce della società capitalista contemporanea, nel primo face-off decisivo tra liberalismo internazionalista e protezionismo nazionalista dell’Europa continentale. Di confronti ce ne sono già stati altri nel recente passato, basti ricordare Van Der Bellen contro Hofer lo scorso dicembre in Austria, ma lo scontro questa volta ha un sapore diverso, considerato anche ciò che la Francia significa per l’Europa (e viceversa).

Partiamo da alcuni punti fermi di questo primo turno. Certo è il tracollo del Parti Socialiste, atteso, con Benoît Hamon che supera di poco il 6%: non ci si poteva aspettare molto, del resto, da un candidato che fin dalla vittoria delle primarie non è stato supportato da buona parte del suo partito; i pessimi indici di gradimento del partito e di François Hollande hanno fatto il resto, portando Hamon a conseguire il triste record della peggior sconfitta subita da un candidato di centrosinistra dal 1969 a oggi, con un leggero distacco dall’outsider euroscettico Dupont-Aignan, dopo cinque anni del partito di rue de Solferino alla guida del Paese. Jean-Luc Mélenchon, con una campagna pittoresca e a tratti rivoluzionaria per risultati ottenuti, si avvicina alla soglia del 20% senza superarla, ottenendo un bottino di preferenze interessante da sfruttare in ottica legislative della prima metà di giugno. Fillon, dato per favorito tra l’elettorato conservatore dopo esser stato eletto leader dei Républicains e aver battuto Alain Juppé alle primarie del partito, viene sorpassato a destra da Marine Le Pen e si attesta su percentuali di poco superiori a quelle di Mélenchon, segno che l’inchiesta sulla moglie del candidato di destra ha sì avuto un effetto, ma pur sempre piuttosto moderato rispetto alla quantità di colpi incassati da parte della stampa negli ultimi due mesi.

Il dato da non trascurare è che, a prescindere dagli endorsement già espressi dai candidati perdenti, Marine Le Pen ha terreno fertile per rastrellare voti sia dalla frangia più a destra e conservatrice dei supporters di Fillon, sia dagli ultra-delusi che hanno deciso di votare al primo turno per Mélenchon (soprattutto considerato che la distanza tra Front National e France Insoumise, per quanto possa non far piacere agli elettori di una e dell’altra parte, non sia poi così ampia su determinati punti programmatici). Non arrivare in testa al primo turno potrebbe rappresentare uno svantaggio come, allo stesso modo per Macron, la convergenza al centro della Santa Allenza tra Fillon e Hamon potrebbe non assicurare una vittoria sicura e preannunciata.

La conquista di un posto al secondo turno delle presidenziali da parte del Front National è comunque destinata a esporre tutte quelle fratture interne che al momento dividono la società francese. Sono tante, di vario tipo, e decisamente da tenere in considerazione.

Per cominciare, considerato l’alto livello di personalizzazione della contesa elettorale proprio del sistema transalpino, il confronto è sulla storia personale dei candidati e di ciò che rappresentano: Macron l’ex-banchiere, membro a tutti gli effetti di un bistrattato (eppure tuttora al potere, non solo in Francia) establishment internazionalista, contro la campionessa di una Francia che si sente dimenticata dalle classi dirigenti, lasciata indietro dalla globalizzazione e da tutto ciò che di svantaggioso ne può derivare – sintomatico è lo spostamento a destra della classe operaia francese, secondo uno degli ultimi sondaggi pubblicati da Libération. Sul piano dei programmi di politica economica dei due candidati, lo scontro è aperto tra una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e apertura alle piazze di scambio globali, contro misure protezionistiche a tutela della produzione locale e nazionale. L’europeismo contro il sovranismo, il centro e la periferia, il liberalismo vis-à-vis con la destra sociale, l’internazionalismo di fronte a quella xenofobia latente che Marine Le Pen non è riuscita a (o non ha voluto intenzionalmente) mitigare per aumentare l’appetibilità del Front National nei confronti di un elettorato tendenzialmente più moderato del suo.

Dalla sfida del “mondialista” che vuole unire il Paese contro la “patriota”, emerge una netta contraddizione tra due anime di una nazione che allo stesso tempo vuole valorizzare l’individualità, ma anche riprendere possesso di un senso di comunità e di appartenenza – prima di tutto culturale – che percepisce come smarrito. Due settimane non sembrano abbastanza per ricucire strappi consolidati nel tempo, e la possibilità che nemmeno cinque anni all’Eliseo lo siano non è così lontana. Nel frattempo, la campagna entra nel vivo ora più che mai, e la contesa presidenziale in Francia incarna simbolicamente in maniera sempre maggiore lo scontro tra le due anime di un’Europa che, presto, arriverà a dover fare i conti con se stessa.

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