Strano riflettere sul nulla. Il mio nulla è tutto, per ogni volta in cui mi sono detta “non è nulla!” davanti a un fortissimo pugno nello stomaco, a un crampo al cuore, ad un attacco d’asma illuminante, per tutte quelle volte in cui ho capito che non c’era poi una grande differenza tra la mancanza di carezze e quella di ossigeno”. Se non avessimo in mano una copertina rosa shocking e una figura di giovane donna con un nuvolone al posto della testa, potremmo trovarci di fronte a L’essere e il nulla di Jean Paul Sartre. Siamo invece dalle parti dell’incipit, più o meno alla ventesima riga, di Se non ti vedo non esisti (Mondadori), primo romanzo della cantautrice Levante. Una riflessione ontologica sull’essenza del “nulla” che dondola tra concetti a cui non si riesce a dare nome, profondità e sensibilità letterarie, e l’ossessività di una seduta di trucco descritta in tutte le sue fasi e dettagli: blush, pennello, rossetto, mascara. Se non ti vedo non esisti è un romanzo ad altezza beauty case, dove la scrittura si tramuta in un perenne rovistare tra lessico, paragoni e metafore ardite.

Un linguaggio che Levante, al secolo Claudia Lagona da Caltagirone, mutua tra il vaniloquio di una Sophie Kinsella e lo spessore di un qualsiasi fast book young adult, tra l’entusiasmo ruspante da Vacanze in America dei Vanzina e l’elitarismo snob di un redattore di Vogue. Tanto rumore per nulla, diceva qualcuno. Tanto caos per così poco, aggiungiamo noi. Se non ti vedo non esisti parte come una semplicissima storia di una casuale e piccante “sveltina”, che la protagonista Anita B., giornalista in viaggio per Jodorowsky al MoMA (sic!), prende di petto come fosse un’adolescente, e che lui – tal Filippo – vive da dominatore macho in modo da far petulare moltitudini di fanciulle sospiranti e vittimiste dietro la sua fascinosa ma dolorosa assenza. Incontro che avviene su un aereo e che si sviluppa con sesso a New York, e infine si tramuta in un tira e molla sentimentale tra Anita B. l’oramai ex marito, e un altro possibile nuovo amante con quell’ondeggiante incapacità di trovare un baricentro che sappia fondere introspezione e filo del discorso, stile e contenuto.

Costellato da incomprensibili paragoni, per strizzare l’occhio ad una confidenzialità tra scrittore e lettore, come se le proposizioni principali non offrissero sufficiente sicurezza (due su tutti: “Iniziai a fare connessioni mentali velocissime, stavo al pensiero come Bolt stava alla corsa” e “Jacopo fu splendido, nonostante il nostro rapporto sbriciolato come una crostatina nello zaino sotto i libri di scuola”), il romanzo di Levante ha sopra ogni cosa un difetto imperdonabile. Non riuscire a sviluppare nell’immediatezza della descrizione di uno stato d’animo, sindrome afasica oltretutto di molto cantautorato contemporaneo, una dolorosa, vitale o mortale, universalità della propria poesia. “Fortunatamente arrestai in tempo la mia dissenteria cerebrale”; “la sua pelle era bella, chiara, liscia, e piena di nei, puntini da unire come a formare un disegno”; “arrivai alla stazione Termini senza bagagli ma con un baule di sofferenza”; “tu passi, Venezia resta. Questo ti insegna il Canal Grande. Io sono Grande, e tu no”, non sono vezzi stilistici o agile padronanza di linguaggio atti a creare una nuova forma letteraria, ma sintesi involutiva da slogan pubblicitari o televisivi trasferiti su carta da romanzo. Quando normalità fa rima con banalità ecco Se non ti vedo non esisti. Triste, tristissimo. Più della vertigine di Anita B. che ha una fine molto brutta e che Levante ha tentato invano di raccontare.

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