“Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, ma se sei un esemplare di disabile, peggio ancora un francesino – il possessore vita natural durante della distrofia di Duchenne -, l’impresa sarà titanica: bisognerà, infatti, fronteggiare l’ansia della propria genitrice, che per comodità chiameremo Mammut.

Per entrare nel merito dell’ansia made in Mammut occorre tornare al 1983, l’anno che annovera la mia nascita e la morte dell’ultimo re d’Italia (passaggio di consegne?). Il giorno prima di venire alla luce… al neon della sala parto, mentre di Emanuela Orlandi si perdevano le tracce (visto l’ambiente, io punterei la forca contro il diavolo), conquistai il diritto a sfoggiare la francesina, alzando, come ben sapete, la mano nel momento sbagliato. Questo increscioso fatto, a sua volta, mi diede la possibilità di partecipare (gratis) al corso “Come vivere felici e contenti con la francesina”. E io – illuso – pregustavo già una vita al fianco di bella e affascinante parigina in quel di Montmartre, e invece è proprio quello che pensate: si parlava della mia spassosa malattia. Una noia mortale, ‘na tristezza e che dormita! Fortunatamente mi destai mentre i relatori spiegavano come contrastare l’ansia che il binomio vincente figlio-disabile produce in una Mammut: il prezioso consiglio dei luminari in materia fu quello di consumarla il prima possibile, ma non accennarono che è come il petrolio, quasi inesauribile.

Così mi diedi da fare, avevo o no un obiettivo ad ampio raggio da raggiungere? Dovevo scendere in campo se volevo costruire la mia indipendenza riconosciuta (mica come il Kosovo, che ancora qualcuno si ostina a non riconoscere) e per farlo avevo una sola arma a disposizione: la scuola, ergo dovevo fare il discolo.

Cominciai timidamente alle elementari e proseguii trionfalmente alle medie. Nei primi cinque anni di carriera scolastica collezionai qualche nota, graffiai una compagna e venni accusato di aver trucidato due pesciolini rossi. Su quest’aspetto, però, continuo a ribadire la mia innocenza: Amnesty international intervieni! In prima media, invece, raggiunsi l’apice con il capolavoro personale di note: 30 in un solo anno, una ogni 7 giorni scolastici. Perché quando mi pongo un obiettivo, mi impegno a tutto tondo.

Si parte da una banale nota di inizio ottobre: “Nicolò disturba ininterrottamente la lezione”; alla prima che la classe prese a causa mia – “Non dobbiamo prendere in giro le compagne” -, che mi fece capire quanto il sistema di omertà messo in atto funzionava; per poi passare a quella classica che settimanalmente faceva capolino sul mio diario, il cui tenore era: “Nicolò continua a comportarsi in maniera insopportabile. Ribatte a ogni mio intervento con battute stupide e mi rende impossibile fare una lezione serena”. Ma niente, l’ansia made in Mammut non veniva affatto scalfita, neanche quando venne convocata dalla preside, che le comunicò del mio primo falso artistico: presentai il disegno di una compagna, cancellai la sua firma e apposi la mia. Purtroppo l’insegnante non capì che anche la furbizia è essa stessa arte.

Allora provai a intaccare cotanta ansia con codesta nota: “Nicolò ha apostrofato con un appellativo volgare una compagna”. In quest’occasione credo di aver dato della donna di facili costumi, forse il termine era molto meno edulcorato, a una compagna colpevole di aver risposto “no” al mio bigliettino: “Ti vuoi mettere con me? Sì, no o forse”. E lei rispose con un determinato e secco “no”, ma almeno lasciami l’illusione maschile del “forse”! Ricordo ancora la sfuriata della professoressa, che ebbe però il merito di insegnarmi in un sol boccone il rispetto per le donne (fare il discolo a qualcosa è servito).

Nel frattempo la popolarità tra i peggiori elementi della scuola – che probabilmente ora contribuiscono alle patrie galere – cresceva inesorabilmente: “Sei un grande”, mi dicevano. Questo faceva di me il Bart Simpson della Brianza, perché anch’io come il più celebre discolo del mondo dovevo scrivere per svariate volte una frase come punizione: “Devo imparare a rispettare l’insegnante e ascoltare quello che mi dice”. Con la differenza che io la scrivevo una sola volta e nelle righe sottostanti mi limitavo a mettere le virgolette. L’originale iniziativa, però, non piacque (tanto per usare un eufemismo) all’insegnante, chissà poi perché?

In tutto questo, il nostro “eroe” è forse riuscito nell’impresa di affievolire l’ansia made in mammut? Beh, lo scoprirete nella prossima puntata…

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