La definitiva smentita di tutti coloro che avevano creduto che la nomina di Valeria Fedeli a ministro dell’Istruzione in sostituzione di Stefania Giannini avrebbe prodotto un cambiamento di rotta sulle politiche scolastiche è arrivata puntualmente sabato 14 gennaio, quando il Consiglio dei ministri ha approvato 8 delle 9 deleghe previste dalla legge 107/15 (la cosiddetta Buona Scuola) su altrettante materie fondamentali per il sistema scolastico di istruzione: esame di Stato, istruzione professionale, valutazione, diritto allo studio, per dirne solo alcune. Tra tutti spiccano i provvedimenti relativi all’inclusione scolastica e al percorso 0-6, sui quali da lungo tempo una parte consistente della scuola aveva espresso fortissime perplessità e resistenze e di cui occorrerà parlare diffusamente per illustrarne la pericolosità. Ma, non pago dell’autoritarismo con il quale fu approvata la legge più odiosa (quanto a normativa scolastica) della storia della Repubblica, il governo Gentiloni si è pervicacemente allineato con quell’atteggiamento che – ricordiamolo – è stato uno dei motivi del mai discusso ed analizzato pubblicamente flop referendario del 4 dicembre.

Alcune rapide questioni solo apparentemente periferiche: non è vero fino in fondo che la nomina di Fedeli sia stata un evento in perfetta continuità. La sua provenienza sindacale (Cgil, tessili) ha consentito nei primissimi giorni del suo mandato di riallacciare un dialogo con le parti sociali, che ha fatto registrare modifiche per quanto riguarda il contratto di mobilità. In altre parole, la funzione del cambio di guardia non è stata, come alcuni hanno creduto, un’ammissione di responsabilità del disastro che il governo Renzi ha creato nella scuola pubblica (non a caso la riforma non è mai stata rivendicata nei continui autoincensamenti pronunciati in prossimità delle sue dimissioni, sia la sera del 4 dicembre, sia durante la seguente Direzione del Pd). Rimarrà da valutare se tale ritrovata armonia sarà sufficiente per far considerare ai sindacati confederali la gravissima approvazione delle deleghe un fatto di peso non sufficientemente decisivo da intaccare gli equilibri che si sono venuti a creare.

Inoltre: con ostinazione quasi incomprensibile, l’ennesimo governo frutto della fiducia di un Parlamento profondamente delegittimato dalla sentenza 1/14 della Corte Costituzionale, definito in silenzio, senza contraddittorio, soprattutto senza alcun tipo di sensibilità rispetto agli esiti del referendum e all’espressione inequivocabile del fatto che le politiche renziane – rispetto alle quali Gentiloni si è posto in assoluta continuità – hanno disgustato una percentuale altissima dei cittadini italiani, ha effettuato l’ennesima entrata a gamba tesa, facendo passare in extremis 8 delle 9 deleghe in bianco. Scelta compiuta a pochissimi giorni dalla scadenza dei 18 mesi previsti dalla norma e senza avere in alcun modo audito i soggetti coinvolti dai provvedimenti (studenti, docenti, genitori), che verranno – ancora una volta e del tutto al limite– coinvolti in una ratifica a cose fatte, in perfetto Renzi’s style, quello dell’ascolto simulato. Ad essere esautorato pertanto non sono solo le istituzioni parlamentari, ma anche quei “portatori di interesse” (i sempre citati stakeholders di neo liberistica anglofila suggestione) che finiscono per essere più che interlocutori reali, un mero orpello retorico per chi pratica il dirigismo autoreferenziale.

Il motivo di un atteggiamento così miope e arrogante sta evidentemente nella consapevolezza di avere davanti a sé un tempo abbastanza lungo per poter continuare imperterriti – e nonostante la sconfitta del 4 dicembre – il massacro sociale e la dismissione dei diritti che hanno caratterizzato gli ultimi 3 anni. Starà certamente a tutti noi – se avremo considerato realmente inaccettabile questo comportamento – non solo trovare l’energia per rispondere con una seria mobilitazione all’ennesimo atto di imposizione, ma anche ricordare in tutte le sedi in cui verrà chiesto il nostro voto, da chi è diretto e come si orienta e agisce questo Pd e quanto zelantemente ha lavorato non solo per la distruzione della scuola della Costituzione, ma anche della pratica quotidiana della dinamica democratica.

L’art. 76 della Carta afferma: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. In deroga ad esso la legge 107 ha conferito “deleghe in bianco” al governo, prive di principi specifici. Un fatto grave, divenuto uno delle argomentazioni principali di chi si è opposto alla “Buona Scuola”: un testo da contestare non solo per la parte precettiva, ma per questa ulteriore violenza procedurale alla democrazia costituzionale.

Chiedersi se non sia abbastanza, se la misura non sia davvero colma è d’obbligo. Qualora la risposta fosse positiva, come è del tutto ragionevole immaginare, starà alla responsabilità di tutti gli attori della scuola democratica rispondere con energia, convinzione e intransigenza a questo ennesimo strisciante colpo di mano di un Renzi bis che, al di là della prossemica e del temperamento diverso del premier, si dimostra nei fatti esecutore di una politica di sostituzione dei principi della Costituzione che abbiamo difeso con i must del neoliberismo più oltranzista.

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