“Non è possibile vivere in un paese dove si suicidano gli operai” dice Mimmo Mignano quando lo chiamo al telefono. E poi fa “come stai Guagliò? Noi non ti molleremo più!”. Lui è uno dei cinque licenziati dalla Fiat di Pomigliano. Lo hanno spostato a Nola in un reparto confino, uno di quei posti dove ti mettono perché rompi le palle al padrone e non possono licenziarti. Ma ti ci sbattono con una cassa integrazione a zero ore e ti danno le briciole di qualche centinaio di euro per farti sopravvivere. Poi qualcuno non resiste e si impicca o si conficca un coltello nella pancia come Maria Baratto. E allora Mimmo e altri quattro con lui fanno un pupazzo e lo mettono impiccato con la faccia di Marchionne. Un Marchionne immaginario (quello vero vive in un altro mondo) che si scusa per quei morti, quegli operai che non ce l’hanno fatta a sopravvivere al limbo senza vita nel quale la Fiat li ha condannati.
E per quel pupazzo i cinque operai (già condannati alla quasi-fame) vengono nuovamente giudicati oggi, 20 settembre per essere condannati alla fame totale. “Siamo Davide contro Golia” dice Mimmo “noi operai contro il colosso della Fiat, è difficile, è tosta, ma stiamo mettendocela tutta. Denunciamo una serie di suicidi di gente che stava a cassa integrazione a zero ore”.
E nel frattempo, nel mezzo di questa lotta, di questi meccanismi lenti che muovono i lentissimi tribunali, questi operai stanno in mezzo alla strada. Non in maniera figurata. Vivono sui sedili di un’automobile parcheggiata accanto a un marciapiede. Sono operai senza tessere di partiti e sindacati. O supportati da sindacati che non hanno un posto di prim’ordine nei telegiornali. I loro acronimi sono sconosciuti alla maggior parte dei telespettatori.
“Vedo questi barboni per la strada e penso che la mia vita finirà con una coperta su un marciapiede” dice Mimmo che oggi uscirà da una tenda piantata in mezzo alla strada per rappresentare la propria rabbia e la propria dignità in tribunale. Spero che “andranno su come zingari” e marceranno “con le bandiere rosse di Trotzky al vento…”.
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