Cosa deve accadere ancora. Che cosa, perché la comunità islamica abbia un sussulto decisivo. Perché manifesti concretamente la propria avversione incondizionata al terrorismo. E’ la prima domanda per il coordinatore delle comunità islamiche milanesi Davide Picardo che ha nonni e cugini proprio a Nizza. E al primo titolo sulla “strage col camion” si è attaccato al telefono, in preda all’ansia e al bisogno di sapere che i parenti erano in salvo. Su cosa fare non ha risposte pronte. Il comunicato di condanna, certo. Ma non basta più. Una grande manifestazione in Italia, in Europa? Non basta neppure quello. E allora? “C’è qualcosa che sta sfuggendo a tutti. L’unica certezza è che la semplificazione non aiuta a sradicare il rischio terrorismo. E che le comunità islamiche pacifiche che sono la stragrande maggioranza e chi governa i processi democratici nei paesi occidentali devono fare un tratto di strada insieme. Perché il mancato riconoscimento di diritti civili per una comunità integrata e pacifica è carburante per i camion del terrore”.

Non basta più la condanna. Questo pensano molti italiani. E non solo.
E io sono d’accordo. Sono quasi in imbarazzo a scrivere l’ennesimo comunicato che ribadisce l’ovvia distanza tra noi e gli stragisti che colpiscono gli inermi usando la religione come arma. La nostra reazione è ancora un interrogativo, ma certo replicare lo schema attentato-condanna-presa di distanza lascia ormai il tempo che trova. Noi siamo oltre questo, il 99% dei musulmani non concepisce neppure azioni di questo tipo.

Potreste fare una grande manifestazione nazionale che lasci un segno.
Sono anche scettico sulle dimostrazioni di piazza. Non sono risolutive di nulla e anche se porto in Duomo 500mila musulmani non saranno mai abbastanza, salterà sempre su il Salvini di turno che accusa la comunità di essere collusa ai terroristi.

Ma scusi, chissenefrega di Salvini no? Non è più importante mandare un messaggio al mondo e sgomberare il campo dall’equivoco che alimenta accuse di continuità con i terroristi?
Ma devono scendere tutti in piazza, italiani atei, musulmani. Perché non si scende in piazza quando c’è un disastro ferroviario o quando ci tolgono dei diritti?

L’indomani dell’incidente ferroviario nel barese, in verità, i ferrovieri hanno scioperato per chiedere sicurezza… Anche a Palermo ci sono volute le stragi perché la gente si mobilitasse, ma è successo!
Non sono accomodante, ma devo essere onesto intellettualmente. Sarebbe facile nel mio ruolo inneggiare alla grande manifestazione, ne farei cento così. Ma non credo siano una soluzione.

E allora andiamo al cuore del problema.
Intanto bisogna capire cosa c’è davvero dietro questo attentato. Ai nostri occhi può sembrare indifferente ma il fattore scatenante è fondamentale. A volte è l’integralismo religioso inquadrabile in un conflitto globale, a volte è il disagio delle periferie, altre è pura criminalità. La semplificazione che ricomprende tutto sotto l’ombrello del “terrorismo islamico” è falsa e soprattutto pericolosa. La logica del “noi” e del “voi” crea più problemi di quanti ne risolva. Si arriverà al punto in cui le libertà di tutti verranno compresse. E sono le libertà di tutti noi. Per questo dividerci è la cosa peggiore.

In attesa di capire, cosa succede nella comunità?
Prevale un disorientamento generale, mi ci metto dentro anch’io. Posso testimoniare però che il dolore e la rabbia è la stessa. Ho 10mila contatti Facebook di persone di fede musulmana e tutti esprimono sgomento. Però questo non basta. Perché il problema di fondo, a mio avviso, è proprio nella correlazione che qualcuno traccia tra la pratica della religione islamica e l’azione violenta. La conseguenza è che l’unico musulmano buono, che non rappresenta un pericolo, che non è una quinta colonna, che è integrato totalmente nella società non è musulmano. Ma è una gigantesca mistificazione perché il 99,9 degli islamici delle nostre comunità vive e lavora pacificamente e mai si sognerebbe di immaginare azioni violente.

Quale soluzione immagina, se la immagina?
Islamici e non devono stare uniti, marciare insieme. Dobbiamo fare un’alleanza in cui tutti siamo dalla stessa parte. Dire “voi cosa fate” non ci porta avanti di un millimetro. C’è però un pezzo di strada da fare. Noi lo facciamo tutti i giorni. Lo fanno gli imam, i presidenti di associazione che collaborano, convivono, segnalano. Tengono le porte aperte. Lavorano nel sociale, per la convivenza. Lo fanno poi le seconde generazioni, sulle cui spalle ricade questo peso e questo impegno. Se i giovani musulmani che vivono e lavorano in Italia non si fanno saltare in aria significa che sono stati educati bene, che nessuno gli ha inculcato l’odio. Che quando vanno in moschea non sentono messaggi di intolleranza e illegalità. Ma anche i non islamici, in Italia, devono fare qualcosa.

Ovvero?
Mi chiede perché non andiamo in piazza. Beh, la nostra è comunità che non conta nulla. Non ha neppure il diritto di voto, non ha luoghi di culto. Sono 40 anni che c’è una presenza di musulmani in Italia ed è passata da poche migliaia a due milioni di persone. E nel frattempo non è stata modificata nessuna norma, il diritto sancito per Costituzione non viene applicato. Certo che se contasse qualcosa politicamente la comunità islamica avrebbe dei diritti da difendere e li farebbe valere, anche quando serve a tutti, ma non conta perché non vota. E siccome non vota non ha diritti.

Più diritti in cambio di una dissociazione effettiva e permanente dagli integralisti?
Certo, solo una vera cittadinanza rafforzerebbe gli anticorpi. Ma come si fa a pretendere che questo avvenga spontaneamente, senza un processo riformatore delle regole di convivenza civile che riconosca il valore della comunità pacifica? Chiaro che non ha voce. E’ una comunità fatta di persone umili che non hanno permesso di soggiorno, fanno gli operai. Noi non abbiamo professori universitari, giornalisti, direttori di banca. E’ una comunità che non conta. Ma non si può imputare a una comunità politicamente debole la responsabilità di risolvere un problema.

Potrebbe però fare un passo avanti. Perché così pochi musulmani svolgono un ruolo attivo nella comunità politica?
Solo il 10% dei musulmani sono italiani o di passaporto italiano. Il 90% sono esclusi dalla possibilità di partecipazione alla vita politica di questo Paese dove per avere la cittadinanza devi aspettare 20 anni e a volte non bastano. Perfino per chi è nato qui. Pensi alle polemiche sulla consigliera Sumaya Abdel Qader, prima persona musulmana eletta nel consiglio comunale di Milano.

Appunto, se non fosse la sola ma fossero cento forse non sarebbe stata oggetto di attacchi strumentali.
E se le dicessi che il marito di quella consigliera è venuto in Italia che aveva un mese e a 38 anni è un dentista, ha sempre vissuto solo in Italia e non ha mai avuto la cittadinanza? E’ un esempio, ma figurati l’egiziano che è arrivato 10 anni fa. Sono processi che richiedono tempo.

Il tempo è ormai poco, gli attacchi sono allordine del giorno. Il mondo è quasi in guerra.
Per questo sono quasi disarmato, impotente. So solo che questo frapporre ostacoli, pregiudizi e sospetti non fa altro che ostacolare la partecipazione alla vita democratica e civile in questo Paese. Noi vogliano essere il primo anticorpo alla violenza ma non siamo nelle condizioni se non rafforziamo la comunità stessa nelle sue organizzazioni pacifiche e democratiche. Se la lasciamo nel limbo di una semilegalità che fatica ad concedere perfino luoghi di culto non sarà mai in grado di agire da vero anticorpo. L’ombra del sospetto rafforza il buio. La nostra è una comunità che sente il peso della discriminazione, il muro della diffidenza. E’ questo che vorrei dire. Aiutiamoci tutti.

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