“Il mio dovere è quello di proteggere gli interessi della Scozia in ogni circostanza”: sta forse in questa frase, pronunciata dalla ‘first minister‘ scozzese, l’indipendentista Nicola Sturgeon, l’elemento principale per capire che cosa succederebbe nel caso di una Brexit a nord del Vallo di Adriano. Fra Glasgow, Edimburgo, Aberdeen e Inverness, le città più grandi e importanti dell’area, ma anche nei centri minori e nei villaggi di pastori e agricoltori, l’europeismo sembra farla da padrone. Tutti i sondaggi degli ultimi mesi lo hanno rivelato: mentre a livello nazionale il fronte pro-Brexit sembra a momento maggioritario, se si vanno a vedere i dati scozzesi si nota come la nazione più fiera del Regno Unito (e la Scozia è una delle quattro nazioni, insieme a Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord) sia anche quella meno desiderosa di divorziare da Bruxelles.

Ecco così che Sturgeon, che è anche leader di quello Scottish National Party che portò gli scozzesi al referendum per l’indipendenza – poi fallito – che si tenne il 18 settembre del 2014, parlando con i parlamentari scozzesi dell’assemblea di Edimburgo, che è semi-autonoma da Londra, ha detto: “Stiamo assicurando un’appropriata pianificazione per tutte le eventualità”. Tradotto, significa che se venerdì 24 giugno, il giorno dopo il referendum, si dovesse scoprire che il Regno Unito ha veramente deciso di uscire dall’Unione europea, Edimburgo cercherebbe una via d’uscita. “Ma sarebbe più un lavoro diplomatico che legale”, ha assicurato Sturgeon, che tuttavia non ha mai escluso un secondo referendum per l’indipendenza che faccia ‘staccare’ la Scozia dal Regno Unito e la faccia tornare fra le grandi braccia di Bruxelles.

Nei giorni scorsi, parlando con la stampa nazionale e internazionale, l’ex leader dello Scottish National Party e ora parlamentare a Westminster, Alex Salmond, aveva dato quasi per sicuro una seconda consultazione. A Londra, nei palazzi del potere, si mormora che la cosa sarebbe quasi impossibile, quasi illegale e quasi incostituzionale, per quanto il Regno Unito non abbia una Costituzione scritta ma soltanto una costituzione dedotta dalle leggi e dalle tradizioni. Però, ed è quello che si dice a Edimburgo, come negare a una nazione fiera e volenterosa di autonomia come la Scozia di decidere per il suo futuro? Come obbligare oltre 5 milioni di persone (su un totale di 64 milioni di britannici) a mettere da parte la loro aspirazione all’autodeterminazione? Certo, non tutti e 5 i milioni di scozzesi sono europeisti o indipendentisti, come anche il referendum di quasi due anni fa aveva mostrato. Ma a Edimburgo, soprattutto sulla collina di Holyrood dove si trova il parlamento scozzese, ne fanno soprattutto una questione di principio.

Così, considerando anche che i voti scozzesi potrebbero spostare l’ago della bilancia a favore della bocciatura della Brexit, sempre che chi abita a nord del Vallo di Adriano vada a votare in massa, c’è soprattutto un grande fattore da tenere in conto, quello dell’economia. Che, nelle Highlands e dintorni, non è affatto povera come vedere quelle campagne e quelle montagne sconfinate e semidesertiche lascerebbe pensare. Secondo gli studi, almeno tre quarti del reddito degli imprenditori agricoli è a rischio con la Brexit, come sottolineato dalle principali associazioni di categoria del settore. Il calcolo è presto fatto: il 74% del reddito di queste imprese arriva proprio dall’Unione europea – questo il dato del 2015 – e il 40% della carne di pecora e del manzo scozzese viene esportato in Europa praticamente senza dazi. “Un voto per l’Ue è l’unico modo per assicurarci un futuro di prosperità”, hanno scritto i rappresentanti degli imprenditori agricoli. Bisognerà vedere se i loro associati seguiranno i consigli.

Poi, ancora, l’industria del petrolio del Mare del Nord, che ad Aberdeen in Scozia ha le sue basi. Nella città sulla costa nord-orientale, centinaia di aziende del gas e del petrolio hanno beneficiato negli ultimi anni delle norme europee. E si sa già come la pensa la Cbi, la Confederation of British Industry, la ‘Confindustria britannica’, che nei mesi scorsi ha più volte lanciato l’allarme sull’ipotesi Brexit. Infine, un’altra industria, una delle più fiorenti, quella del whisky scozzese. Nel mese di maggio la Scotch Whisky Association aveva avvisato: “La Brexit metterebbe a rischio oltre un miliardo di sterline di export dei nostri prodotti”, che poi sarebbero circa 1,3 miliardi di euro al cambio attuale. Un appello, poi, sostanziato anche dai numeri. “Mica vorrete mettere in pericolo un settore che vale 5 miliardi di sterline per l’economia britannica e che dà lavoro a 40mila persone?”, avevano detto i rappresentanti dei distillatori. Ora, che si tratti di allarmismo oppure no, resta solo da capire se giovedì 23 giugno i lavoratori scozzesi e britannici in generale daranno retta a tutti questi appelli.

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