Bulgaria, Cipro, Francia, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Spagna e Ungheria. Nonostante la sospensione, decisa dopo che nell’agosto 2013 centinaia di manifestanti erano stati uccisi in una piazza del Cairo, 12 stati dell’Unione europea hanno continuato a fornire armi ed equipaggiamento di polizia all’Egitto.

Solo nel 2014, i loro governi hanno rilasciato 290 autorizzazioni all’esportazione di forniture militari per un valore di oltre sei miliardi di euro: piccole armi, armi leggere e relative munizioni, veicoli blindati, elicotteri, siluri, armi pesanti per operazioni anti-terrorismo e tecnologia per la sorveglianza. Quello stesso anno l’Italia ha emesso 21 autorizzazioni per un valore di 33,9 milioni di euro, di cui oltre 15 milioni di euro in armi leggere. Nel 2015 abbiamo inviato in Egitto 3.661 fucili e accessori per un valore di oltre quattro milioni di euro, 66 tra pistole e rivoltelle per 26.520 euro e 965.557 euro in parti ed accessori per pistole e rivoltelle.

Nel 2016, l’Italia ha già spedito in Egitto pistole e rivoltelle per un valore di 73.391 euro. Dunque, con ogni probabilità abbiamo continuato a inviare armi all’Egitto anche dopo che Giulio Regeni era stato torturato a morte.

C’è di più. Secondo l’ong Privacy International, aziende di vari paesi europei tra cui Germania, Italia e Regno Unito hanno inviato all’Egitto tecnologia e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza. Facile che siano state usate contro il dissenso pacifico e per violare il diritto alla riservatezza.

Si dirà: l’Unione europea ha inviato armi all’Egitto per aiutarlo nelle operazioni militari contro i gruppi armati, responsabili di attacchi contro civili e forze di sicurezza soprattutto nel nord della penisola del Sinai.

In queste operazioni l’esercito del Cairo usa armi pesanti come veicoli blindati, carri armati, elicotteri Apache e aerei da combattimento F-16. Cosa accade nel Sinai non è però dato saperlo. C’è totale mancanza di trasparenza su queste operazioni, sulle quali è stato anche imposto un black-out ai mezzi d’informazione. A giornalisti e organismi indipendenti della società civile è vietato l’ingresso nella zona.

Difficile, comunque, immaginare che i 10 milioni di cartucce calibro 9 ordinate nel 2014 a un produttore della Repubblica Ceca o le migliaia di pistole e fucili fornite dall’Italia s’impieghino nelle operazioni contro il terrorismo nel Sinai.

Le forze di sicurezza egiziane sono regolarmente dotate di pistole e carabine. Per disperdere le manifestazioni, usano anche bastoni, fucili, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni e sono appoggiate da vari tipi di veicoli blindati. E, armate di tutto pugno, eseguono arresti (quasi 12.000 nei primi 10 mesi del 2015, secondo un funzionario del ministero dell’Interno citato dalla stampa egiziana) o si presentano, sempre pesantemente armate, nottetempo e in borghese, in abitazioni private per portar via quelli che dopo poche ore diventeranno desaparecidos (centinaia nell’ultimo anno).

Vi è il fondato timore che nei prossimi mesi la già largamente inosservata sospensione dei trasferimenti di armi sia annullata, a imitazione della decisione presa lo scorso anno dagli Usa, che hanno ripristinato gli aiuti militari all’Egitto per un valore di 1,3 miliardi di dollari l’anno.

Fornire armi che rischiano di alimentare la repressione interna va contro il Trattato sul commercio di armi, vincolante per tutti gli stati dell’Unione europea, viola la Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armi e, per quanto riguarda l’Italia, è in contrasto anche con la legge 185/90 già ignorata in occasione dei trasferimenti di bombe all’Arabia Saudita.

Amnesty International ha sollecitato l’Unione europea a imporre e applicare rigorosamente un embargo vincolante nei confronti dei trasferimenti di equipaggiamento di sicurezza e di polizia all’Egitto, almeno relativamente ai tipi di armi presumibilmente usate per compiere o facilitare gravi violazioni dei diritti umani.

 

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