E’ davvero il deficit di capitale il problema numero uno di Unicredit? Viene da chiederselo in queste ore in cui gli uffici studi dei grandi broker italiani ed esteri sfornano report e tracciano scenari più o meno plausibili sulle prossime mosse dell’istituto di Piazza Gae Aulenti. Per la verità è mesi che circolano con insistenza voci sulla necessità di una ricapitalizzazione, necessità sempre smentita dall’attuale amministratore delegato, Federico Ghizzoni, consapevole della difficoltà di battere cassa a fronte di risultati estremamente deludenti (in Borsa il titolo ha lasciato sul terreno quasi il 50% dall’inizio dell’anno, senza contare le perdite rilevantissime degli anni precedenti) e dopo che la banca negli ultimi dieci anni ha effettuato ben tre aumenti di capitale per un totale di circa 15 miliardi di euro.

L’insoddisfazione dei grandi azionisti per i risultati della gestione è cresciuta negli ultimi anni, fino a farsi sempre più palpabile negli ultimi mesi, tanto che lo scorso ottobre si è andati vicini allo show down sia per effetto dello scandalo “Palenzona-Mercuri, sia per la presentazione di un piano industriale giudicato insoddisfacente e punito dalla Borsa. Ora, a sei mesi di distanza da quei fatti, sono maturati i tempi per il cambio al vertice in forza anche di risultati trimestrali che – pur superiori alle stime di consensus degli analisti – segnano un calo degli utili di circa il 20% rispetto a quelli realizzati nello stesso periodo dello scorso anno. Un dato che indica inequivocabilmente come la redditività della banca non sia sufficiente a produrre un rafforzamento patrimoniale, mentre sul fronte delle cessioni in tutti questi mesi non sono stati fatti significativi passi in avanti. Il risultato è che il coefficiente patrimoniale Cet1 si colloca al 10,86%, di poco sopra al minimo regolamentare del 10,50% previsto dalla Bce per le banche italiane, e – data la mole dei non performing loans in capo all’istituto e a redditività in calo – crescono i timori che il Cet1 possa ulteriormente calare nei mesi a venire (già oggi è ampiamente al di sotto della media delle banche italiane). Di qui la percezione della necessità di agire in tempi rapidi con un cambio di strategia e una consistente iniezione di capitale in grado di rimettere in carreggiata il gruppo.

A quanto ammonterebbe il deficit di capitale? Secondo Royal Bank of Scotland (Rbs) il titolo, che già tratta con uno sconto record del 60% rispetto alla media dei prezzi-obiettivo degli analisti, alle quotazioni attuali abbondantemente inferiori ai 3 euro “prezza un deficit di capitale di 9 miliardi di euro”. Secondo Rbs è ipotizzabile un aumento di capitale di 5 miliardi, per gli analisti di Fidentiis la necessità di capitale si colloca tra i 4 e i 6 miliardi di euro ed Equita Sim ritiene probabile un aumento di capitale superiore ai 5 miliardi nel secondo semestre del 2016. Si tratta solo di alcuni numeri tra i molti che girano in queste ore, ma che rendono bene l’idea delle cifre in gioco. Un aumento di quest’ordine di grandezza produrrebbe un effetto estremamente diluitivo sui soci e forse è proprio questa una delle ragioni del crescendo delle pressioni, anche internazionali, su Piazza Gae Aulenti.

In una situazione quale quella attuale – con il sistema bancario italiano che si trova in una fase di estrema debolezza e costretto a tamponare falle continue vuoi attraverso il fondo Atlante, vuoi attraverso altri fondi volontari – gli azionisti italiani di Unicredit si trovano con il fiato corto e potrebbero avere oggettive difficoltà a sottoscrivere pro-quota. Mentre Unicredit, non essendo la Popolare di Vicenza bensì la banca italiana più internazionalizzata in una posizione di leadership su molti mercati, è un boccone che fa gola a tanti. Questo in buona parte spiega il perché fino ad oggi Ghizzoni abbia tenuto duro sulla linea di evitare a tutti i costi un aumento di capitale, elaborando un piano industriale ad alto rischio di insuccesso.

E ora che i nodi sembrano giungere al pettine e che si intensifica il pressing del mercato sull’aumento, l’esito delle consultazioni tra i grandi soci non è poi così scontato ed è anzi plausibile che si arrivi a una soluzione di compromesso non tanto e non solo sulla figura del nuovo amministratore delegato, quanto piuttosto sulla strategia da adottare: gli equilibri nell’azionariato sono infatti delicati ed è difficile immaginare un via libera ad un aumento che come esito potrebbe avere quello di portare altrove il controllo di Unicredit. Più probabile una soluzione all’italiana, in grado di tamponare la situazione con un’iniezione di capitale molto più modesta degli ipotizzati 5 miliardi e un’accelerazione sul fronte della cessione dei non performing loans, magari sfruttando anche il veicolo Atlante in cui Unicredit ha investito 1 miliardo e che è già intervenuto in soccorso di Piazza Gae Aulenti facendosi carico integralmente dell’aumento di capitale della Popolare di Vicenza. Un’ipotesi che potrebbe divenire più concreta qualora la ricapitalizzazione e quotazione di Veneto Banca dovesse andare in porto senza la necessità di un intervento massiccio del fondo gestito da Quaestio sgr.

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