Musica

Come ci siamo fatti fregare da questa faccenda della musica liquida

Divertissement di Michele Monina

A noi ci ha fregato di brutto questa faccenda della musica liquida. Se ne parla da tempo, e se ne parla così tanto e in maniera così, appunto, liquida, che abbiamo finito per non capirci niente, per fraintendere, e di colpo ci siamo fatti un po’ tutti prendere la mano.

Una volta, neanche troppo tempo fa, la musica era appannaggio degli appassionati, di coloro che padroneggiavano la materia e che, ovviamente e legittimamente, venivano visti dagli altri, e per altri si intende il resto del mondo, come gente con un know how importante, quelli da consultare come fossero enciclopedie viventi, quelli cui chiedere consigli, quelli da stare ad ascoltare senza permettersi di interromperli, esattamente come si fa in genere con le persone ammantate di un’aura, di un carisma. Avete presente l’amico della compagnia che si intende di vini? Ecco, lo stesso, solo che qui si parla di musica. Poi c’erano gli altri, e con gli altri si intendeva, appunto, il resto del mondo: la gente che la musica la ascoltava pure, ma senza una vera conoscenza. Oh, magari c’era la passione per un singolo cantante, ma si rientrava nella categoria fan, non certo in quella di intenditori.

Poi, appunto, è arrivata la musica liquida, e a tutti c’è parso possibile diventare intenditori. Del resto, proprio recentemente Simon Reyonolds, forse il critico più importante al mondo, ce l’ha detto bene. La possibilità di ascoltare musica in rete, legalmente o illegalmente, il passaggio da disco fisico a MP3, prima, e a file in streaming, poi, nei vari canali idonei o su Youtube ha reso davvero la musica appannaggio di tutti, togliendo però quel senso di appartenenza che ha fatto, nel tempo, crescere e sedimentare i generi. Volete mettere l’idea di attendere per mesi, anni, un album, passarselo tra adepti come fosse qualcosa di segreto, inseguire le chicche con la brama di chi sa di star per mettere le mani su qualcosa di prezioso? Tutto svanito. Oggi abbiamo tutto subito, senza appartenenza, velocemente, troppo velocemente, neanche ci si sofferma più, un click dietro l’altro. E così succede che quelle che un tempo erano le discoteche, intese come raccolte di dischi, non di locali dove andare a ballare, sono state sostituite da hard disc esterni, e oggi neanche più da quelli, ma semplicemente da raccolte di video sul tubo. Quindi chiunque può andarsi a cercare questa o quella canzone, credendoci davvero.

Sì, credendo che l’aver ascoltato per tre minuti, massimo tre minuti e mezzo un brano in rete faccia di noi un esperto di musica, un critico musicale, un dj. Perché nel mentre, di pari passo con la padronanza, fittizia, della materia, è prosperata anche la figura del dj, quello che prepara le proprie playlist, le mette a disposizione degli altri, si apre il suo blog dove parlarne, magari anche la sua web radio. Un vero florilegio, un vero flagello di cui onestamente non si sentiva la mancanza. Tutti esperti, e tutti pronti a dispensare la propria idea di musica e la propria esperienza, a beneficio arrendevole e passivo degli altri.

Il problema, perché un problema di fondo c’è, è che se è vero come è vero che la musica liquida ha reso la fruizione così veloce e disattenta, trasversale al punto da aver ucciso i generi, altrettanto è vero che la musica liquida, così possibile da cercare e trovare, così presente in ogni luogo e in ogni lago, ha reso piuttosto inutili non solo il ruolo delle playlist e delle web radio, ma anche quelle del critico musicale in quanto semplice recensore. Perché dovrei mai andarmi ad ascoltare le canzoni che Tizio o Caio hanno messo in fila per noi quando possiamo noi stessi farcene una nostra? E perché mai dovrei andare a leggere o sentire cosa ha da dirmi un qualsiasi critico musicale se il disco cui ha dedicato le sue parole me lo posso andare a ascoltare direttamente con un click? Tutto sembra inutile. E in effetti star lì a seguire certe compilation (c’è ancora chi chiama le playlist compilation, giuro) online è davvero esercizio sterile, così come leggere certi deliri fatti cadere dall’alto manco fossimo di fronte a Greil Marcus o Paul Morley. Esattamente come pretendere di trovare qualcosa di interessante nei miliardi di tutorial per diventare chef fatti da gente cui, con ogni probabilità, non affideremmo neanche il compito di prepararci un toast.

Affideremmo mai la nostra auto a uno che si autoproclama su Facebook meccanico, ma che prende lo stipendio come insegnante di Latino e Greco al Liceo Classico? O ci faremmo curare una carie da uno che su Twitter sostiene di aver trovato un metodo dentistico innovativo, mai pensato prima da mente umana e che, però, nella vita fa il conducente dell’autobus? Chiaro, la musica rientra nel campo dell’intrattenimento e della cultura, o viceversa, quindi l’essere autodidatti o iconoclasti ci può anche stare, ma pensare che valga proprio tutto tutto no, perché i risultati, alla fine, si sentono. E non è un bel sentire. I dj, fatevene una ragione, sono coloro che lavorano sui ritmi e suoi suoni, li miscelano, creando nuovi ritmi e nuovi suoni, partoriscono groove, scovano nomi e titoli ben prima che divengano patrimonio comune, ma che comunque con buone probabilità ci diventeranno, patrimonio comune. Non basta mettere una playlist su un social per diventare dj, così come non basta andare a fare una serata in discoteca mettendo un cd già preparato sul lettore.

I critici musicali, fatevene una ragione, sono coloro che lavorano sull’immaginario e sui generi, che studiano l’evoluzione della musica, sfociando non di rado nell’antropologia, nella sociologia, insomma, nei critical studies. Gente che un tempo vi raccontava la musica anche per consigliarvene o sconsigliarvene l’acquisto, perché acquistare musica era il solo modo per ascoltarla, e che oggi ha preso la forma del tempo moderno e si è spostata a lato, imparando sulla propria pelle a raccontarvela in maniera differente, creando link, concentrandosi sugli apparati teoretici proprio al fine di offrire a tutti i mezzi per decodificarla, quella musica liquida ormai sotto l’orecchio di chiunque con un click. Non basta scrivere quattro sciocchezze sui social per diventare un critico musicale, come non basta scrivere un racconto su un blog per diventare uno scrittore, o tirare quattro calci a un pallone in cortile per essere un calciatore.

Poi, ci mancherebbe altro, tutti possiamo continuare a fare quel che ci pare, anche servire ai nostri amici che abbiamo invitato a cena tre fili di spaghetti arrotolati intorno a una cozza bollita spacciando il tutto per nouvelle cousine, basta solo sapere che i nostri amici, che sul momento nicchieranno e faranno anche i complimenti, una volta usciti di casa rideranno alle nostre spalle, e la prossima volta vi inviteranno a farvi una pizza fuori, almeno la notte non gli brontolerà lo stomaco.

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