Confesso di non capire quelli che si sorprendono così tanto davanti all’ennesima rissa scatenatasi all’interno del Partito democratico. Stavolta per la tragicomica vicenda delle primarie e degli incidenti che ne hanno macchiato la correttezza con i soldi distribuiti davanti ai seggi (Napoli) e le schede bianche aggiunte per gonfiare l’affluenza e fare numero (Roma).

A parte la pochezza degli eventi, che tanto ricordano i vecchi metodi dei padroni delle tessere democristiani e socialisti della prima Repubblica, non vedo grandi novità in questa polemica tra maggioranza renziana e minoranza del partito. E’ l’ennesimo scontro tra parti che non avrebbero mai dovuto stare insieme. Culture, tradizioni politiche, concezioni della militanza, storie, in una parola, del tutto differenti e inconciliabili.

Già, perché il Pd non è mai stato un vero partito. Anzi, come partito non è mai nato. Lo hanno spacciato come tale i mitici fondatori, leader e militanti affezionati e gli osservatori compiacenti, ma è sempre stato ed è riuscito ad essere una agguerrita e litigiosa federazione di correnti.

Proprio così, correnti. Da una parte gli ex democristiani grosso modo transitati sotto la sigla dem attraverso i simboli dei popolari e della Margherita. Dall’altra gli ex comunisti sopravvissuti sotto le insegne dei Ds, al seguito dei vari D’Alema, Fassino, Bersani e altri leader, come Veltroni, che sono anche riusciti a dire di non essere mai stati veramente comunisti pur di approdare al nuovo. Poveri noi.

Un miscuglio strano e singolare per le nostre latitudini, al quale vanno aggiunti socialisti, qualche liberale e repubblicano, più altre anime sparse del vecchio universo politico italiano. Ecco, questo è stato ed è il Pd, al massimo un cartello elettorale dove ciascuna anima, corrente o “ditta” ha cercato albergo anche per sopravvivere come ceto e assicurarsi scranni e fette di potere.

Una federazione di correnti, un cartello elettorale, al massimo. Perché un partito vero è altra cosa. E’ comunanza di visioni, strategia e valori condivisi, disponibilità al sacrificio pur di vedere realizzata la famosa linea. Questo è o dovrebbe essere, soprattutto se aspira ad incarnare valori di sinistra.

Ben venga la lite, dunque. E ben venga anche lo scontro. Se davvero può servire a sciogliere l’equivoco.

Incapaci di realizzare quel disegno di rinnovamento promesso agli italiani sin dai lontani anni della sbornia referendaria del 1990-94, c’è da augurarsi a questo punto che gli ex innovatori post-comunisti e post-democristiani siano almeno in grado di prendere atto di un fallimento. Il fallimento del Pd come partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria. Si separino, si scindano, si collochino nelle loro aree politico-culturali naturali per dar vita a quello per cui sono veramente vocati: un partito di centro e un altro di sinistra magari capace di rielaborare qualcosa di nuovo da quel che resta tra le macerie fumanti della vecchia socialdemocrazia.

Con una raccomandazione, però: non tentare di fare il solito partitino sufficiente appena per riconquistare un seggio parlamentare alle prossime elezioni (ci stanno già provando quelli di Sel e Sinistra italiano, purtroppo).

In tal caso, meglio farsi da parte e lasciare spazio ad altri. Perché un po’ di dignità neanche guasterebbe. Soprattutto se ci si ritiene eredi, seppur lontani, di Antonio Gramsci e don Luigi Sturzo

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