L’aumento di capitale di Saipem si è chiuso giovedì in un clima che peggio di così non si poteva immaginare: prezzo del petrolio in picchiata intorno ai 26,15 dollari al barile e Borse che hanno registrato l’ennesimo crollo a livello globale, con Piazza Affari che ha perso il 5,63%. Le azioni Saipem hanno chiuso la seduta con una flessione di oltre il 12% a 0,318 euro, nuovo minimo assoluto. Un bagno di sangue per tutti gli azionisti, per le banche del consorzio che si sono impegnate a sottoscrivere l’inoptato – ben il 12,2 %- e in particolare per chi – come la Cassa depositi e presiti – ha investito su Saipem solo pochi mesi fa e ora si ritrova in portafoglio un titolo che vale oltre l’80% in meno.

Una performance negativa che ricorda quelle ottenute dagli azionisti della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca con alcune importanti differenze, tra cui la principale (oltre a quella ovvia che Saipem è altra cosa rispetto alle due banchette) è che la Cassa depositi e prestiti maneggia soldi pubblici (il risparmio postale) e li investe sapendo bene ciò che fa. La scelta maturata a fine ottobre di entrare nel capitale di Saipem con una quota del 12,5% è stata fatta sapendo benissimo che la società guidata da Stefano Cao avrebbe varato di li a poco un’importante ricapitalizzazione e che dunque, pro quota, Cassa depositi e prestiti – o meglio il Fondo strategico italiano – avrebbe dovuto mettere la sua parte, cioè altre centinaia di milioni di euro.

Anzi, la garanzia di partecipare alla ricapitalizzazione è stata data subito, peraltro opzionando un ulteriore 5% del capitale. Anche la situazione difficile in cui si trova Saipem è nota da tempo: è dal 2012, quando scoppiò lo scandalo delle tangenti in Algeria, che la società è nell’occhio del ciclone e oggi sconta anche la perdita di importanti commesse (il gasdotto South Stream) e il prezzo del greggio in picchiata. Per rimetteresi in carreggiata la società ha varato un piano strategico che passa anche per un importante razionalizzazione dei costi e il taglio di circa un quinto del personale (8.800 posti di lavoro), ma data la situazione globale non è affatto detto che ciò possa bastare.

Considerato tutto questo, perché la Cassa depositi e prestiti (che è controllata all’80% dal ministero dell’Economia) ha deciso di puntare proprio su Saipem? La mossa, come già scritto all’epoca, ha portato benefici immediati all’Eni, che ha incassato 463 milioni per la cessione del 12,5% e ha potuto deconsolidare Saipem dal bilancio ottenendo anche il rimborso di 6,1 miliardi di finanziamenti. Benefici ne ha portati anche a Saipem che ora conta un nuovo azionista (pubblico) stabile e di peso, intenzionato a supportare la società in un momento difficile. Insomma, questo investimento ha il sapore e la sostanza di un aiuto di Stato bello e buono a favore di due aziende ritenute strategiche per il Paese e per la stessa Cassa depositi e prestiti che di Eni è azionista con il 25,7% e che proprio dal flusso di dividendi di Eni trae una grossa quota delle sue entrate annue. Come si vede, tutto si tiene e non è poi così difficile trovare 900 milioni di euro di soldi pubblici (a questa cifra ammonta più o meno l’esborso complessivo per l’ingresso in Saipem) da immolare sull’altare del supremo interesse del Paese e dei (propri) dividendi. Tutto il resto può tranquillamente aspettare, a partire dai decreti per il rimborso dei risparmiatori vittime del decreto Salva-banche.

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