“Mi sembra di soffrire la stessa discriminazione di allora”. La voce di Giorgio Bezzecchi rallenta quando gli si chiede delle persecuzioni della sua famiglia. Bezzecchi, consulente del Consiglio d’Europa per il programma RomAct e docente al Master di immigrazione e genere dell’Università di Pavia, è uno dei 160mila rom in Italia. La sua famiglia allargata, quaranta rom harvati, vive nel piccolo campo comunale milanese di via Impastato, ai confini della stazione ferroviaria di Rogoredo. “Mio nonno, solo perché nato zingaro, nel 1941 è stato bruciato a Birkenau. Mio padre è stato portato nel campo di internamento di Tossicia, in Abruzzo. Io sono stato schedato durante la cosiddetta ‘emergenza nomadi‘ del 2008. Cosa abbiamo fatto di male? Non ho il diritto anch’io di calpestare questa terra?”.

Giorgio BezzecchiLa famiglia del presidente dell’unico museo rom di Milano, nell’estate del 1942, non è stata la sola a essere deportata in campi riservati agli zingari. “Ci dimentichiamo troppo spesso che in Italia ci sono stati oltre 50 campi di internamento. I miei genitori sono stati trasportati proprio in un lager abruzzese insieme ad altri 115 rom – continua Bezzecchi – Il nonno materno è finito a Birkenau mentre quello paterno e mia zia sono stati deportati ad Auschwitz. L’unica a essere tornata è stata mia zia, mentalmente disturbata perché vittima del dottor Josef Mengele”, il medico tedesco noto per gli esperimenti sui deportati, usati come cavie.

Prima dei rastrellamenti dei fascisti croati e italiani, la famiglia di Bezzecchi viveva in modo stanziale in Slovenia, lavorando il pietrisco per costruire strade. Il nomadismo è stato ripreso solo dopo la Liberazione. “Non avevamo documenti o residenza, e una volta scappati dai lager abruzzesi, siamo tornati a muoverci in carovane”. Tanto che, per avere diritto a un medico di base, negli anni Sessanta sono stati aiutati dal sindaco di Casteggio (piccolo Comune dell’Oltrepo pavese) che gli aveva concesso di dichiarare di essere residenti in municipio, nonostante si trovassero al campo di Milano.

Per parlare degli anni della deportazione, gli anziani aspettano di essere seduti attorno al fuoco. “Tanta fame e un freddo come non ne avrebbero mai più provato – ricorda Bezzecchi – Le guardie, per risparmiare proiettili, usavano un grosso ceppo chiodato e vi sbattevano sopra la testa di intere famiglie rom. Poi, le seppellivano in grosse casse comuni”. E i deportati che hanno assistito a queste scene nei lager per soli rom, sono gli stessi che in anni ben più recenti sono stati sottoposti all’operazione “Censimento”, una delle clausole previste con l’approvazione della cosiddetta emergenza nomadi del 2008. “Era il 6 giugno e all’alba il campo di via Impastato è stato circondato da settanta agenti in tenuta antisommossa e un furgone della scientifica. Nessuno poteva né entrare né uscire”, ricorda Bezzecchi. Nome e cognome. Fotografie con telo bianco tirato, prima profilo destro, poi profilo sinistro. Impronte digitali. Controllo della carta d’identità: su tutte, non vi era scritto rom, ma cittadino italiano. “Quale altro cittadino, nel proprio Stato, ha patito una schedatura e l’istituzione di un archivio parallelo in Prefettura? Ho fatto il servizio militare, ho sempre lavorato, non ho precedenti penali – racconta il docente – Eppure, quella mattina, tutti i rom sono stati schedati, bambini inclusi. Mio padre aveva paura e sembrava rivivere gli orrori dell’internamento fascista del 1942”.

“Paura” è certamente la parola più ricorrente del racconto del consulente del Consiglio d’Europa. “Temiamo che schedatura e deportazione possano ripetersi. Fin da quando siamo bambini, gli anziani ci dicono sempre quanto il gadjo (in lingua romaní significa “persona che non ha origini rom”, ndr) sia pericoloso. Mi spaventa anche il silenzio della società mentre assistono al genocidio culturale delle minoranze di questo Paese o mentre si sgombera un campo rom al suono di bambini che piangono e lavoratori che si ritrovano senza una casa”. Il riferimento di Bezzecchi, che è stato consulente dell’ufficio nomadi di Milano per 25 anni, fino all’arrivo di Letizia Moratti, va alla prossima chiusura del campo di via Idro a Milano. Qui, oltre un centinaio di rom (di cui 41 minori) saranno sfrattati e accolti temporaneamente in progetti comunali, ovvero “camerate senza scarichi e pareti divisorie, con lenzuola sporche e un livello minimo di igiene. Non è come trasferirli in un campo di detenzione, ma l’odore è quello”. Il punto è che si sono mantenuti, “durante la seconda guerra mondiale come oggi, interventi differenziati per rom e per italiani, dimenticando che la maggior parte dei cosiddetti ‘zingari’ ha cittadinanza italiana”.

Negli anni Sessanta, quando sono stati istituiti i primi campi nomadi comunali, quello milanese in via Negrotto si sviluppava lungo i binari di una ferrovia, in una striscia recintata di terreno nella periferia nord-ovest della città.“Quando rom e sinti hanno visto quel panorama – ricorda Bezzecchi – la maggior parte sono scappati”. Infatti, l’accostamento container-ferrovia gli ricordava (e faceva temere) un contesto simile ai lager nazisti. “A volte mi sembra di essere straniero. In pochi conoscono la nostra storia e non esiste la volontà di ricordare quello che è successo. Spesso mi viene detto: ‘Ma voi cosa fate?’. Più che prendere martellate in testa, cosa dobbiamo fare?”.

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