Il mito del posto fisso è destinato a svanire. Anche il carcere dovrebbe adeguarsi, preparando le persone alle nuove opportunità offerte dal lavoro 2.0

Foto carcere 675

La domanda che dovremmo porci è la seguente: come possiamo sperare che, detenuti che vogliano impegnarsi a seguire un percorso di rieducazione e preparazione alla vita lavorativa, non siano spaventati al punto da avere paura della libertà, se non diamo loro gli strumenti per affrontarla?

Fuori i cambiamenti sono continui, rapidi e radicali. Le nuove tecnologie stanno cambiando il modo di pensare, interagire e lavorare; perdere qualche puntata di questa evoluzione significa dover rincorrere il mondo per colmare la distanza, qualche volta incolmabile. Qualcuno tra gli ospiti delle patrie galere, vi ha fatto ingresso quando l’Iphone era un oggetto misterioso; oggi siamo alla versione 6 e nel frattempo si parla di sharing economy, crowdfunding, coworking, start-up e incubatori d’impresa.

Si rischia di rimettere in libertà dei disadattati, impreparati e incapaci di confrontarsi con la nuova realtà. L’attuale offerta lavorativa e formativa del sistema carcerario, è basata principalmente su lavorazioni manuali e artigianali, in prevalenza funzionali alle esigenze di manutenzione degli edifici penitenziari. Spesso si formano delle professionalità poco spendibili sul mercato del lavoro, come ad esempio i manovali, che difficilmente troveranno occupazione a causa della crisi economica che da anni incombe sul settore edilizio.

Esiste pertanto un divario tra la realtà del mondo libero e ciò che la struttura carceraria può offrire. Anche solo partendo dai nuovi termini di comunicazione, le parole di uso corrente nella vita e anche nel mondo del lavoro, risultano incomprensibili a molte delle persone libere, figuriamoci al detenuto. Termini correnti tutti incentrati sulla lingua inglese, l’idioma più diffuso in tutto il mondo, soprattutto nel settore dell’informatica, basilare per i nuovi lavori.

Sharing economy, crowdfunding e coworking, start-up, sono alcune delle parole di uso frequente, di fronte alle quali le persone detenute si sentono perdute, rendendosi conto che se dovessero intrattenere un dialogo con i giovani, nativi digitali, con tutta la baldanza e il bagaglio di esperienza, non reggerebbero alla conversazione. Ogni individuo ha la sua capacità di lavoro e di apprendimento, bisognerebbe approfondire l’effettivo livello qualitativo e la predisposizione. Solo dopo un’attenta analisi, gli individui dovrebbero essere accompagnati nel percorso di qualificazione e specializzazione, dalle lingue alle nozioni di base dell’informatica, per poi passare alle fasi successive di insegnamento in linea con le esigenze del mercato.

Il detenuto, prima o poi diventerà ex detenuto, una “qualifica” che non perderà mai e di certo non rappresenta un vantaggio. Per gareggiare ad armi pari nella difficile corsa al lavoro, deve avere una marcia in più, un plus, un valore aggiunto che gli consenta di annientare l’handicap; l’offerta trattamentale adottata dall’istituto di pena, deve tenere conto di questa esigenza, altrimenti sfornerà un prodotto invendibile, perché fuori mercato.

di Vittorio Romano e Cosimo Di Biase

Qui è possibile scaricare l’intero numero di VoceLibera 

Articolo Precedente

Vigili del fuoco, il corpo dimenticato: pochi uomini, scarsi mezzi, stipendi bassi. E ora il governo “rottama” i precari

next
Articolo Successivo

Lavoratori stranieri, in sei anni di crisi disoccupazione su del 7% contro +5% degli italiani. Il 30% è ‘troppo qualificato’

next