È un paradosso. La seconda conferenza mondiale su internet si svolge ancora una volta in Cina, nonostante il Paese sia tra gli ultimi nel rapporto 2015 dell’organizzazione governativa statunitense Freedom House sulla libertà in rete. Secondo quest’ultimo, la rete nella Repubblica popolare è meno libera che in Siria, Iran e Cuba. E questo non solo perché blocca l’accesso ad alcune aziende straniere come Google, Facebook, Twitter e molte altre. La parola d’ordine del governo cinese ormai è proprio wangluo zhuquan, “sovranità sulla rete”.

Attraverso la costruzione e lo sviluppo di quello che la stampa ha ribattezzato il Grande firewall, la Cina è riuscita in qualcosa che in pochi avrebbero creduto realizzabile: la costruzione di un internet nazionale, in tutto e per tutto simile al resto della rete. Ma separato. All’interno gli internauti cinesi si muovono come i loro colleghi nel resto del mondo. Ma a guardia dell’intero traffico ci sono paternalistici censori che giudicano, secondo le direttive del Partito, su cosa è giusto discutere e quali sono i social e le applicazioni che rispettano le (loro) regole.

Inoltre, il presidente Xi Jinping, da quando è al potere, ha cercato di centralizzare ulteriormente il controllo su internet attraverso la creazione di due nuovi organi: il Gruppo dirigente centrale per il cyberspazio, presieduto da lui stesso, e l’Ufficio di informazione per l’internet dello Stato, diretto da Lu Wei. Il primo dovrebbe sovraintendere e sviluppare “le strategie nazionali, i piani di sviluppo e le politiche più importanti” mentre il secondo si occupa di trasformarle in legge e farle applicare. Il presidente non si stanca di affermare che le tecnologie internet non devono violare la “sovranità sulla rete” del Paese, mentre il secondo ripete senza sosta che alle aziende straniere è permesso fare affari in Cina solo in obbedienza alla legge cinese.

E più meno con gli stessi contenuti si sono presentati entrambi ad aprire la seconda Conferenza mondiale su Internet a Wuzhen, una cittadina della Cina sudorientale nota per essere la Venezia d’Oriente. Già l’anno scorso è stata un successo, presenti i dirigenti di tutte le grandi industrie tecnologiche, cinesi e non. Facebook, Twitter e i social normalmente bloccati in Cina hanno funzionato nel perimetro ristretto della conferenza. Quest’anno giornalisti e ospiti stranieri hanno avuto in regalo uno smartphone Xiaomi e un accesso internet personalizzato. Attraverso questi strumenti e a differenza dei colleghi cinesi, per i tre giorni della conferenza potranno navigare in rete liberamente.

Il punto è che i 668 milioni di utenti cinesi fanno gola a tutti. Al governo che vede nell’industria tecnologica un mezzo per traghettare la Cina nella transizione da economia di produzione a economia di servizi e alle aziende che fanno a gara ad accaparrarsi quello che è già il più vasto mercato di internauti nel mondo. Ma mentre i media cinesi danno grande risalto al fatto che l’intera Wuzhen sarà coperta dal wi-fi e che l’evento vuole essere veicolo di un nuovo “mondo interconnesso condiviso e governato da tutti”, il New York Times denuncia di essere stato escluso dall’evento per il secondo anno di fila.

Una lista dei capi di stato che interverranno fa ulteriormente riflettere. Oltre al presidente della nazione più popolosa del mondo Xi Jinping, saranno presenzieranno i primi ministri della Russia, del Pakistan, e quelli delle repubbliche centroasiatiche. È esattamente come Lu Wei ha annunciato nella conferenza stampa di apertura all’evento: “Stiamo esplorando una gestione dell’internet con caratteristiche cinesi”, un internet quindi che “non è censurato, ma organizzato”.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

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