Ancora oggi, molti intellettuali, giornalisti e persino storici di grido (di dolore, s’intenda…!) maneggiano con una certa goffa difficoltà la Questione Meridionale. Mi ha colpito, proprio in questi giorni, la ferma convinzione con cui l’on Bindi sostiene che la camorra sia “un dato costitutivo di Napoli”. Aggiungendo, a fronte della inevitabile richiesta di chiarimenti da parte del sindaco di Napoli Luigi De Magistris: «Non mi scuso, sono convinta di ciò che ho detto».

Roberto Saviano, intervistato nella trasmissione Ballarò, ha dichiarato che è, invece, l’assenza dello Stato ad aver portato Napoli e il Sud sulla via del fallimento. E mi pare una lettura assai più dotata di aderenza alla realtà.

Che il Sud sia la patria privilegiata della criminalità puzza da lontano di banalità altisonante, al di là di certe realtà drammaticamente complesse e anche mediaticamente sovraesposte. Lo dimostrano le statistiche su furti e rapine, che vedono spostarsi i fenomeni criminali verso Nord. E, si badi bene, le rapine si denunciano persino a queste latitudini, perché si leggono certe altre stupidaggini, in proposito, che ben qualificano chi le scrive.

Anche la mappa dell’evasione fiscale italiana illustra una situazione ben chiara: l’evasione fiscale è più drammatica proprio dove ci sono più soldi.

E così, persino nel recente saggio di Emanuele Felice, dal titolo fin troppo promettente “Perché il sud è rimasto indietro”, apprendiamo che il divario Nord-Sud deriverebbe, in estrema sintesi, dalle sue classi dirigenti e dal retaggio sociale borbonico, di stampo feudale. Avendo così improntato la propria opera, egli contesta qualsiasi autore, anche grandi meridionalisti del passato, che abbia intrapreso un percorso di ridiscussione delle scelte politiche centralistiche che rallentarono lo sviluppo del Sud. Ma se i morti non possono più parlare, e molti ascari locali starnazzano festanti, alcuni studiosi della Questione Meridionale hanno tuonato quasi immediatamente: il testo, “troppo ideologico” secondo Gianfranco Viesti, è stato contestato finanche sotto il profilo metodologico da altri accademici di spessore come Vittorio Daniele, Paolo Malanima e Luigi De Matteo.

Personalmente, non posso immaginare che in 150 anni di storia unitaria non si sia riuscito a fare altro che accrescere drammaticamente il divario tra Nord e Sud del Paese. Non si possono sottostimare gli effetti di certe scelte governative che ben trascendono la maggiore o minore capacità di gestione delle classi dirigenti locali. Le quali, si badi bene, non intendo certo assolvere.

Per quanto mi riguarda, da lettore critico, guardo con seria perplessità a ogni lettura “totalizzante” nel tentativo di spiegare i fenomeni. Mi fa sorridere teneramente ogni portatore dell’”ultima parola”.

La diffusione delle mafie nel Nord-Italia dimostra chiaramente che certi fenomeni riescono a trovare terreno fertile laddove le condizioni al contorno lo permettano. Senza alcuna preferenza dialettale. Ciò avviene quando gli anticorpi della politica, della burocrazia e poi anche della società civile arretrano di fronte alla necessità di anteporre il profitto di clan o di lobby alla lealtà verso leggi e istituzioni, sempre meno presenti sul territorio. Desidero ricordare, a quanti si dilettino in facili equazioni, che la quasi totalità delle vittime di mafia furono uomini del Sud, che qui hanno maturato, a scuola, all’università e infine nei corridoi di un tribunale o di una questura, il proprio forte attaccamento al senso del dovere e della legalità.

Giovanni Falcone disse assai lucidamente: “La mafia uccide i Servitori dello Stato che questo non è riuscito a proteggere”. Inchiodando lo Stato, l’Italia, per chi avesse le idee confuse, alle sue responsabilità con l’efficacia di un epitaffio. Spero che nessuno si sogni di catalogare persino Falcone come un meridionalista col vizio del “rivendicazionismo”.

Nondimeno, quando si parla di criticità in espansione al Nord, secondo Emanuele Felice avviene che “le istituzioni politiche ed economiche del Nord hanno preso ad assomigliare sempre più a quelle del Mezzogiorno”. Chi va col Mezzogiorno impara a zoppicare. La colpa è sempre del Sud, che assurge persino a modello imitato di negatività. Tesi che non condivido, ovviamente.

Ingenuamente, mi sarei aspettato un florilegio di studi sociologici ed economici su quegli imprenditori che, in accordo con la criminalità organizzata del Sud hanno sotterrato ogni specie di monnezza nel sottosuolo. Assai consigliabile la lettura de “Il Paradiso – viaggio nel profondo Nord” di Ciro Paglia e Gennaro Sangiuliano, che illustrano il substrato politico-culturale su cui si è attrezzata una serie di scandali, da Tangentopoli ai più recenti, che tanto costano all’erario e all’immagine del paese tutto. Lo stesso Felice, ancora, ricorda la connivenza sistematica tra criminalità e imprese del Nord, vincitrici degli appalti della autostrada Salerno- Reggio Calabria, che “fin da subito avevano stretto accordi con i capi camorristi locali per forniture, manodopera e tutto quanto concernesse i subappalti”.

Sono fermamente convinto del fatto che se si continua ad avere una narrazione mutilata dei drammi che aggrediscono trasversalmente settori vitali del nostro paese, difficilmente si arriverà a sciogliere i nodi gordiani che lo affliggono. In Italia, nessuno si senta in prima classe, con buona pace degli strabici cantori del potere.

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