In Grecia ed in Europa si parla molto di tassare gli armatori greci, si dice anche che questi evadono regolarmente le tasse, ma quello che non si dice è che all’inizio del 2000 l’industria navale greca è migrata verso Oriente a causa di decisioni affrettate e poco lungimiranti prese a Bruxelles. Oggi il domicilio fiscale di gran parte di questa industria è in Giappone, Corea del Sud e Cina, anche se la flotta continua a battere bandiera greca.

Ecco la storia di questo clamoroso fiasco di politica industriale in un brano tratto da Democrazia Vendesi

“Nel 2002, la Prestige, una petroliera greca si incaglia a largo della costa della Galizia e rimane in mare per giorni perché le viene vietato l’ingresso in porto dagli spagnoli, divieto motivato dalla paura che lo scafo si rompa e la nave perda il suo prezioso, ma rischioso, carico nelle loro acque. Bruxelles non può intervenire, non ha questo tipo di competenza né di potere.

Lo scafo si rompe in mare con conseguenze ben peggiori. Tutti gridano al disastro ecologico. Bruxelles reagisce imponendo a tutte le navi europee il doppio scafo, una decisione che comporta una spesa enorme. Per adempiere alle nuove regole gli armatori greci, ancora oggi proprietari del 19 per cento della flotta mercantile mondiale, dovrebbero indebitarsi pesantemente. Il governo del loro Paese, condizionato dalla direttiva comunitaria che vieta finanziamenti statali all’industria dell’acciaio e a quella navale, si rifiuta di aiutarli. Né è possibile utilizzare i fondi strutturali, quelli devono andare a zone sottosviluppate o a progetti nuovi.

Pame, il sindacato della sinistra greca, sostiene che neppure le banche greche erano abbastanza grandi per poter procurare agli armatori la liquidità necessaria per riconvertire tutte le navi. Nonostante gran parte della flotta mercantile europea battesse bandiera greca, le banche di questa nazione non sono mai state particolarmente attive nei prestiti per l’industria navale, un settore molto specializzato e che richiede ingenti capitali. Fin dagli anni Ottanta altri istituti di credito stranieri si sono distinti in questo ambito, sviluppando strumenti di credito ad hoc vantaggiosi per l’industria navale e senza domandare in garanzia beni personali. Gran parte di queste banche erano e sono asiatiche.

«Le banche greche avrebbero potuto organizzare un consorzio e cercare di convincere gli armatori a rimanere in patria, e qui lo Stato sarebbe potuto intervenire per facilitarne la costituzione. il governo avrebbe anche potuto concedere degli sgravi fiscali, ma non è stato così», afferma il portavoce di Pame. Perché?

Tradizionalmente in Grecia tra settore privato e Stato non corre buon sangue. Questo infatti è un Paese in cui l’iniziativa privata non è mai stata granché incoraggiata, un atteggiamento che l’ingresso nell’Unione europea avrebbe dovuto smussare, se non cambiare del tutto. Ma nessuno a Bruxelles ha mai insistito in questo senso, come nessuno ha alzato un dito per salvare l’industria navale greca. Per chi comanda dall’interno di una cabina di regia, a migliaia di chilometri di distanza, è difficile confrontarsi con realtà locali specifiche. Sono stati invece i governi e le banche di Cina, Giappone e Corea del Sud, le nuove superpotenze navali, a offrire condizioni vantaggiose e prestiti a basso tasso d’interesse agli armatori greci, a patto però che i lavori fossero condotti nei cantieri dei loro Paesi. Ed ecco come l’industria navale greca è salpata verso il Sol Levante e il favoloso Oriente.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perché i grandi istituti di credito europei del Nord, che detengono ben il 50 per cento della capacità bancaria mondiale, non avevano gli strumenti per finanziare una delle industrie più grandi del Continente, e perché invece si sono specializzate nella vendita del debito e dei derivati alla periferia? Semplice: soldi facili. Questa era infatti un’attività che offriva guadagni rapidi in un mercato poco concorrenziale: dato che i tassi d’interesse scendevano, il debito poteva essere continuamente rifinanziato a tassi più bassi o venduto ad altre banche. Inoltre, i profitti provenivano da operazioni contabili a rischio zero – fino, naturalmente, al crack – e anche il personale che gestiva questo castello di carta doveva solo saper macinare matematica (mentre per finanziare l’industria vera bisogna sporcarsi le mani, andare in fabbrica, parlare con gli operai, gli industriali e conoscere il settore).

La specializzazione delle banche europee nella moderna usura avvenne quindi sotto lo sguardo benevolo della burocrazia di Bruxelles, a sua volta impegnata a finanziare nella periferia, colata di cemento dopo colata, la più grossa bolla immobiliare della storia moderna. Anche questa attività produceva guadagni sicuri e veloci per il capitale finanziario nordeuropeo. Sappiamo bene infatti a cosa sono serviti negli ultimi vent’anni i fondi comunitari e quelli strutturali, nella periferia dell’Unione: non ad aiutare industrie importanti che davano da vivere a centinaia di migliaia di persone, ma a sostenere aeroporti incapaci di sopravvivere autonomamente – tra il 1995 e il 2008 la Commissione ha autorizzato ben 90 aiuti di Stato destinati a sostenere 46 aeroporti in 18 Stati membri, per un totale di oltre 150 milioni di euro; a incoraggiare la costruzione di altri dove non è mai atterrato nessuno, o nel peggiore dei casi a ristrutturare, ampliare se non addirittura arredare abitazioni a uso privato attraverso l’appropriamento indebito dei fondi da parte di criminali, per fortuna poi smascherati.
Queste stravaganze immobiliari hanno arricchito i politici locali ma anche le imprese nordeuropee che vi partecipavano. Dal Nord arrivavano le ruspe, i camion, gli architetti e anche gran parte delle società d’appalto locali usufruivano di imprese settentrionali, ben inserite nei corridoi di Bruxelles, per vincere gli appalti…

Oggigiorno nessun cantiere navale costruisce le super- tanker da 50.000 tonnellate – quelle gli armatori greci continuano a produrle in Asia – e sono rimasti attivi in Grecia solo tre cantieri navali. Uno è privato e fabbrica solo yacht; il secondo è gestito, guarda caso, dai tedeschi che là costruiscono i loro sommergibili Thyssen, che rivendono poi al governo greco quale difesa contro «la minaccia turca»; il terzo ha soltanto un molo di riparazioni. La perdita netta per Atene, e non solo, della migrazione dell’industria navale in asia è stata enorme. Nel 2011 gli armatori greci hanno costruito 654 navi, di cui solo una in patria, per un costo totale di 11 miliardi di euro. Tutti soldi spesi fuori dai confini nazionali della Grecia e di Euroloandia, quindi non tassabili.

Oggi, con il costo del lavoro in picchiata a causa dell’austerità e della disoccupazione, quest’industria non solo farebbe comodo, ma sarebbe competitiva rispetto a quella asiatica.”

Ma l’industria navale in Grecia non esiste più né esiste quella manifatturiera che nel lontano 1981, quando la Grecia entrò nell’Ue contribuiva per il 35 per cento al Pil nazionale. La domanda da porsi è dunque questa: il crollo del costo del lavoro, la delazione interna prodotta dall’austerità insomma, che vantaggi offre all’economia se questa non è industrializzata e se l’austerità le impedisce di farlo? E la risposta è semplice. Nessuno!

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