Dopo aver pubblicato nello scorso novembre E pensare che dovevo fare il dentista… doppio album con la sua Orchestra Italiana, Renzo Arbore è tornato sul palco per un tour di 13 tappe. Settantasette lune e non sentirle. Portare avanti la tradizione della musica partenopea bagnandola con sonorità più moderne, lungimiranza e fortuna nel testimoniare gli esordi di future star italiane e non, ne fanno un personaggio unico che i generi li ha percorsi e vissuti con intensità. Soprattutto jazz e swing. In questa intervista non si è risparmiato, guardando le relazioni tra il Bel Paese e il suo pubblico di emigrati e stranieri affascinati dall’Italia, riservando qualche frecciatina al sistema televisivo e a una politica che dovrebbe valorizzare di più i tratti culturali che fanno la nostra fama nel mondo. E spiegando cos’è per lui la musica. Nel suo nuovo album si alternano brani della napoletanità più classica a grandi classici d’oltreoceano.

In ‘I can’t give you all my love’ canti da crooner un classico jazz mentre Lucio Dalla ne è la pasta sonora.
Si, come crooner perché fa parte della mia anima jazzistica. In me convivono varie personalità musicali perché sono un ex-Dj con gusti musicali molto vari. Riesco persino a cantare messicano: nel brano La Zanzarita faccio, unico in Italia, il sonero. Sai quello che svisa con la voce chioccia dal ritmo sudamericano? Mi divertono queste cose anche se la mia passione sono lo swing, il jazz, il crooner. Partendo da Sinatra, Bing Crosby fino a Tony Bennett e Michael Bublè. E poi le canzoni napoletane che canto con la collaborazione dei miei amici dell’Orchestra Italiana.

Come sceglieste quella canzone jazz?
I can’t give you all my love è una delle mie canzoni preferite. Questi pezzi sono anche una maniera per far ascoltare il jazz, come diceva Paolo Conte “a quelli che non lo capivano”. Quando lo canti, o lo svisi, come fa il mio amico Gegè Telesforo o come faceva Lucio, arriva più facilmente di un lunghissimo assolo di sax tenore. Quella canzone fa parte del nostro bagaglio comune. Io e Lucio partivamo dal jazz tradizionale di New Orleans. Lucio recuperando quattro suoi vecchi musicisti è partito proprio dal Dixieland. Tutto quel repertorio dal Basin Street Blues che Pupi Avati racconta che abbiamo suonato fino all’inverosimile facendo sempre gli stessi sbagli sempre allo stesso punto! Partiamo proprio da quella musica.

Nel doc ‘Senza Lucio’ racconti un piccolo inedito della vostra infanzia. C’è qualche pezzo meno conosciuto di Dalla che consigli alle nuove generazioni?
Si capiva dall’inizio che Dalla aveva una personalità diversa, da Che cos’è Bonetti, dedicato a un suo amico. Probabilmente uno dei matti di Bologna… Il pezzo era una specie di rap, di skat. Lui partiva da cose così. E poi Disperato Erotico Stomp che è molto carina.

Dove viene citato anche Bonetti…
Si “A Bologna non si perde neanche un bambino…” e “A Berlino ci son stato con Bonetti!”. Ci sono anche altri capolavori come Futura. È difficile conoscere Lucio, perché contrariamente ad altri suoi colleghi che sono stati più tematici scegliendo l’amore e cantandolo in tutti i modi, lui, e anche De Gregori, hanno cantato gli eventi: Francesco Titanic, Lucio L’anno che verrà.

Hanno cantato un’epoca, la loro.
Che si vede anche in una sensazione come in Caruso, o in Come fanno i marinai. Era molto composita l’arte di Lucio. Un personaggio come lui dovrebbe essere studiato a livello letterario. Anche senza musica, solo testi. Dovrebbe essere conosciuto anche all’estero. Invece sono conosciuti quei tre o quattro, che tra l’altro cantano in spagnolo. Il pop italiano di qualità, tranne Paolo Conte in Francia, non è stato esportato né aiutato dalle istituzioni. Lo dicevo a Franceschini che è una cosa sulla quale bisognerebbe lavorare un po’. Le istituzioni dovrebbero convincersi che le canzoni sono un veicolo di formazione culturale straordinario del nostro paese. Il melodramma già lo ha fatto, ma le canzoni non sono state aiutate, anzi le hanno confuse con quelle di Sanremo, o con parte di esse che non sono rappresentative del pop italiano.

Questo pensiero potrai farlo sentire più forte ora che sei stato nominato Ambassador per Expo Milano 2015.
Quello è un riconoscimento alla missione dell’Orchestra Italiana. Quando l’ho formata 25 anni fa menomale che non mi aiutarono le istituzione perché si era in piena Tangentopoli. Il nostro scopo era diffondere le canzoni napoletane, quelle già amate dal pubblico internazionale, come Torna a Surriento, ‘O sole mio e tante altre. Commissionammo un tendone a Togni per mettere insieme eccellenze italiane come moda e gastronomia. Tutte cose che non si sono avverate, ma l’Orchestra è sopravvissuta a questo progetto di promozione del nostro paese. Partivamo da strumenti della nostra tradizione come i mandolini, arricchendo il sound con ritmi esotici e internazionali. La lezione l’aveva data Carosone. Si ricorda per Tu vuo’ fa’ l’americano e Pigliate ‘na pastiglia ma lui ha scritto canzoni tradizionali importantissime come Maruzzella. Mescolava ritmi dell’epoca con la napoletanità, la Nenia napoletana con i suoni del Mediterraneo che aveva imparato in Tunisia e il Rock’n’Roll.

Veniamo al tuo tour. L’Italia dal Nord al Sud in 13 tappe. Da Milano a Pescara, che è l’ultima ad agosto. Che Italia stai trovando?
Di solito trovo un’Italia trasversale. Non sono un artista generazionale. Di solito i cantanti hanno un pubblico che li segue da quando avevano 18 anni, e quello è rimasto. Il mio pubblico, curiosamente, va invece dai ragazzi, non tanti per la verità ma di più al sud, fino agli ottantenni: quelli che hanno seguito tutta la mia carriera. Poi ci sono quelli che mi conoscono soprattutto come musicista dai tempi degli Swing Maniacs, il gruppo col quale ho preceduto il ritorno dello swing e Michael Bublè, che ho presentato al suo esordio in Italia quando era ancora un ragazzino arrivato dal Canada.

Hai presentato anche l’esordio italiano dei Jackson Five in un vecchio video…
È vero, quella era L’altra Domenica. Ho tenuto a battesimo anche Vasco Rossi con la prima canzone, una rarissima apparizione di Fabrizio De Andrè, che mi ha dedicato anche una pernacchia! Il debutto di Claudio Baglioni in bianco e nero; Pino Daniele, che ho lanciato all’Altra Domenica con ‘Na tazzuriell’e cafè. Quello è il mio background. Ma se guardi sul mio sito Renzoarborechannel.tv, con la musica dell’Orchestra Italiana siamo andati in tutto il mondo. Europa, America, Cina…

Attraverso i continenti e le Music Hall hai portato una fetta forte della nostra cultura. Come percepiscono l’Italia oltre la musica i nostri italiani all’estero?
Sono legatissimi alla nostra musica. E io sono il loro beniamino. In Argentina ad esempio sono veneti soprattutto, Vengono ad ascoltarci, piangono, ridono, si emozionano.

Cosa ti chiedono dell’Italia?
Adesso sono molto informati grazie alla rete. Prima non lo erano. Ora conoscono un’Italia diversa da quella che hanno lasciato. Prima c’erano pregiudizi tra macerie di bombardamenti, poi Camorra, corruzione. Ora sanno che il paese è cresciuto molto, ma restano con la loro nostalgia perché non tornerebbero mai indietro. Sono abituati al loro paese. All’Italian way o life. E sono cambiati molto. Prima erano gli Al Capone, oggi sono i Grasso, presidente della Borsa, Cuomo e Giuliani. L’Italia rimane il paese del gusto, dell’arte e della bellezza. Non è soltanto il paese di Gomorra, ma quello di Renzo Piano, di Armani.

E gli stranieri cosa pensano di noi?
Hanno una grande considerazione per noi. Non leggono di Berlusconi, bunga bunga ecc. A loro arriva l’Italia della Ferrari, del cinema importante, Benigni, gli Oscar, Sorrentino, Prada. I giapponesi vengono apposta da noi per vedere il Bisonte! Che è il miglior stilista di pellami fiorentino. Poi arrivano Bocelli e Pavarotti, ma non Dalla e De Gregori. Perché dovrebbero essere aiutati da qualcuno che traducesse la lingua. L’italiano è una lingua meno parlata del tedesco e per esportarlo la canzone sarebbe un ottimo grimaldello. Le nostre istituzioni dovrebbero iniziare ad accorgersene. Qui invece arriva Madonna e ci tratta come pezze da piedi, non lo posso vedere questo. E noi la idolatriamo con degli urletti come se fosse un genio. E ci ha rubato perfino il nome!

In un’Italia che procede a fatica, cosa porteresti dall’estero per migliorarla?
Sicuramente il progresso tecnologico. La rete dovrebbe essere insegnata a noi non-giovani. Io me la cavo con il mio sito. Menomale che la rete ti permette di leggere rapidamente il giornale e d’essere informato. Mi viene da pensare a Rai International, alla quale mi dedicai con grande passione, e che ora si pensa a rimettere su. Non capisco perché ad esempio a Toronto non debbano conoscere Mantova, ma solo Milano, Roma, Firenze e Venezia.

E Napoli?
Quella no, perché vanno a Sorrento.

Mamma Rai è in difficoltà tra il canone che Renzi vorrebbe imporre in bolletta, i CDA sempre più politicizzati e l’ipotesi della privatizzazione. Esiste la pozione magica per salvarla?
La privatizzazione non può che renderla sempre più commerciale. E abbiamo visto i danni di quella televisione. Non sono mai stato comunista e la parola “commerciale” non mi da fastidio. Però il servizio pubblico, se non educare, deve arricchire l’audience. Parlavo di Mantova, perché non deve esistere una bella rubrica sul paese più bello del mondo? Perché non posso conoscere certe città se non andandoci? Poi si parla di talk politici e reality, ma poco d’intrattenimento.

Quello si è tradotto in talent, balli tra coppie improbabili di vip, video litigi e isole varie.
Oppure imitazioni, qualche espediente, trucchi. Quell’intrattenimento della nostra generazione, parlo di me, Baudo, Antonello Falqui, ma anche Patti Pravo, era come andare a teatro. Tranne Virginia Raffaele che lavora graziosamente, Max Paiella e pochi altri il resto è anche satira, ma caduca: dopo tre settimane invecchia. Ribadisco: il servizio pubblico deve rimanere servizio pubblico perché è uno strumento troppo importante e troppo pericoloso per essere affidato solo al mercato.

Tanto che la privatizzazione di un tale gigante dell’etere sarebbe destinata a uno smembramento che ne cancellerebbe l’identità.
Certamente avrebbe gli anni contati. Lo dico da patriota, non esiste che in un paese così vario da dover conciliare i gusti di un milanese e di un cosentino un servizio pubblico non faccia questo lavoro di divulgazione. Che sia dell’Expo o della nostra cultura. Insomma, finché non ci sarà il totale predominio della rete bisogna preservare il servizio pubblico.

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