Sembra gracile in mezzo a tutti quei giganti di cemento che la sovrastano. Eppure, le mura di questo edificio anonimo custodiscono le aule della scuola elementare di via Trilussa 10, il primo avamposto di legalità che si incontra qui, tra le strade di Quarto Oggiaro, quartiere popolare a nord di Milano. Quest’anno l’istituto festeggia mezzo secolo. I bambini che siedono tra i suoi banchi hanno voluto festeggiarlo con biglietti di auguri fatti da loro. “50 anni di scuola”, è spennellato in verde e in rosso sui teli e i cartelloni bianchi. Le finestre e le facciate ne sono tappezzate. Una sorta di tricolore. Simile all’originale, a volte percepito lontano e distratto rispetto a quello che avviene quaggiù.

Completo grigio scuro un po’ troppo largo, grossi occhiali quadrati sul naso: Daniele Giardina dal ’96 è preside del polo scolastico che comprende anche le primarie di via Graf 70 e le medie di via Graf 74, entrambe a pochi isolati da via Trilussa. “Questa scuola è nata nel ’64, quando la città si stava espandendo a macchia d’olio e iniziavano a spuntare come funghi i quartieri dormitorio. Negli anni il contesto sociale è cambiato – racconta Giardina mentre fuori dal ufficio iniziano gli schiamazzi della ricreazione – Adesso, faccio un esempio, la metà degli studenti che abbiamo ha origine straniera. E anche i problemi sono mutati, ma le loro cause sono rimaste le stesse: il degrado e la povertà. È chiaro che alcuni bambini a scuola riflettono il malessere che vivono in casa. Proprio per questo cerchiamo di estendere l’educazione anche fuori dalle aule con iniziative che coinvolgono le famiglie e l’intero quartiere”. Ad esempio Piazzetta Capuana, con l’aiuto di Save the Children, ora è un luogo dove i circa 700 studenti della Trilussa e delle Graf possono giocare e studiare il pomeriggio insieme ad alcuni educatori. E due anni fa, un progetto promosso con Legambiente ha trasformato il giardino della scuola in un orto. Dove i ragazzi coltivano frutta e verdura che viene poi venduta alle feste. “È una piccola idea che cerca di educarli a una corretta alimentazione e al rispetto dell’ambiente”, spiega il preside.

Ma la prima materia che si cerca di insegnare tra questi banchi è la legalità. Anche se non è facile impararla in un posto dove il fiato della malavita è pesante. Dove a volte si spara, e sui marciapiedi rimangono i cadaveri dei morti ammazzati. È successo nemmeno un anno fa. Il 27 ottobre 2013 Emanuele Tatone, appartenente a una delle famiglie più blasonate nell’aristocrazia criminale del quartiere, venne freddato insieme all’amico Paolo Simone agli orti di Vialba, storico ritrovo di boss e pezzi da novanta della ‘ndrangheta milanese. Il 31 ottobre la stessa sorte toccò al fratello di Emanuele, Pasquale, il vero capofamiglia, fulminato da tre pallettoni calibro 12 tra via Pascarella e via Trilussa. A due passi dalla scuola elementare dove tutti i fratelli Tatone (Nicola, Mario, Pasquale ed Emanuele) studiarono anni prima. “Le parole? Ah, non esistono parole per spiegare fatti del genere a dei bambini”, parla più con lo sguardo che con la voce Giulia Procopio, da 40 anni maestra di matematica alla Trilussa e alla Graf. “Cerchi solo di ascoltarli e rassicurarli. Molti di loro in quei giorni si affacciavano alle finestre di casa e vedevano le macchine della polizia, ma non capivano perché fosse stato fatto del male a persone in qualche modo vicine. Alcuni ragazzini abitano nello stesso palazzo dei Tatone, e per loro quei due uomini erano delle semplici ‘brave persone’, viste di sfuggita nel cortile del condominio. Di fronte a eventi del genere bisogna tirare avanti con il nostro lavoro, far capire ai piccoli che la vita è un’altra, che bisogna rispettare le regole”.

Per farlo anche quest’anno gli studenti delle quinte andranno in giro per il quartiere insieme alla Polizia Municipale e lasceranno un foglietto con le “contravvenzioni” sulle macchine in divieto di sosta. “Abbiamo anche avviato un progetto con il Commissariato di polizia della zona – aggiunge la maestra – che ha fatto vedere agli alunni come si svolge il lavoro delle forze dell’ordine”.

“È stata una bella esperienza. I ragazzi si sono resi conto che i nostri uffici non sono tanto diversi dalla loro scuola. È stata un’occasione per dimostrarli che la polizia non è così lontana dal resto della comunità”, racconta, seduto dietro la sua scrivania sommersa dai fascicoli, il vice questore Antonio D’Urso che da un anno dirige il Commissariato di via Satta 6. Sono stati lui e i suoi uomini, che del quartiere conoscono vita, morte e miracoli, a mettere le manette ad Antonino Benfante, detto Nino Palermo, presunto killer dei fratelli Tatone e di Paolo Simone. Un’indagine chiusa nel giro di un mese insieme ai colleghi della Squadra Mobile. Il suo battesimo tra queste strade. “È stata una bella soddisfazione, certo. Ma nel nostro mestiere non ci sono solo gli arresti, bisogna lavorare sulla prevenzione e bisogna farlo partendo dai ragazzi”, spiega il vice questore. “È per questo che fra pochi mesi incontreremo i nove presidi delle scuole di Quarto Oggiaro per iniziare una serie di incontri con gli studenti su droga, spaccio e cyberbullismo”. Ma la legalità per D’Urso, più che una materia da insegnare, è un valore da trasmettere attraverso esempi. Anche duri se serve. “Proprio lo scorso anno abbiamo arrestato un ragazzo delle superiori che addosso e in casa aveva un bel po’ di hashish. Lo abbiamo eseguito in classe, d’accordo con il preside, davanti agli altri studenti. Non è una prassi comune, ma quel ragazzo stava diventando un ‘idolo’. E per questo abbiamo voluto far capire ai suoi compagni che se intraprendi la strada dello spaccio arrivi dritto a queste conseguenze”.

Tra un anno il preside Giardina andrà in pensione. Ma è felice per aver festeggiato insieme ai suoi ragazzi i 50 anni della scuola. Anche se lui il regalo per questo compleanno lo ha ricevuto in anticipo. “Un anno fa stavo camminando per strada, quando a un tratto mi si è parato davanti un ragazzo in sella a un motorino. Mi ha chiesto se mi ricordassi di lui. Gli ho risposto di no. Ma quando si è tolto il casco, ho capito che si trattava di Domenico, un nostro ex alunno. Mi ha raccontato che stava uscendo da un momento difficile. Era stato in carcere, ma adesso aveva trovato lavoro come postino. E poi mi ha detto un’altra cosa: ‘Sa, per ritirarmi su ho pensato tante volte a quello che ci avete insegnato’. Ecco, quel ragazzo mi ha fatto capire a cosa serve il nostro lavoro”.

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