Il 25 settembre, mentre giovani, meno giovani e soprattutto giovanissimi (anche minorenni) iniziavano ad assieparsi fuori dagli Apple Store e si preparavano alla lunga notte di attesa che li separava dall’oggetto del desiderio, iniziava a Todi il primo evento italiano dedicato alle App, i Todi Appy DaysPlayers, professionisti e appassionati riuniti in tre giorni con 80 eventi tra panel, talk, workshop e laboratori, organizzati in edifici storici, e oltre 140 speaker da tutta Italia.

Noi di Nomadi Digitali eravamo lì per raccontare sia come le app hanno cambiato il viaggio sia come le esigenze sempre più diverse e articolate dei viaggiatori facciano nascere nuove app, aprendo così le porte a nuove possibilità professionali. Con un valore di circa 26 miliardi di euro, pari al 2% del Pil italiano, il settore delle app costituisce a oggi un terreno fertile per gli sviluppatori e per chi ha nuove idee legate ai servizi, i più disparati, da offrire in mobilità, con una prevalenza nel settore delle app legate ai giochi e a viaggi e trasporti, che sono le più scaricate.

Bene, verrebbe da dire. Lo sviluppo tecnologico, le professioni digitali, il Web sono asset decisivi per la ripresa e la crescita economica, sono un’opportunità, una prospettiva, in una parola, sono il futuro. E’ lì che bisogna puntare per dare il famoso cambio di rotta. E’ la volta anche dell’Italia? Immersi in un ambiente stimolante, creativo, carico di progetti e anche di sogni come quello degli Appy Days, ci siamo infatti chiesti se nella parallela corsa all’iPhone 6 potevamo scorgere il segno di una presa di coscienza delle potenzialità delle tecnologie mobili.

In altre parole, al netto dei casi che rasentano l’isteria, esito dell’abile strategia Apple di ‘affamare’ i propri clienti razionando le disponibilità nel momento di maggiore richiesta, esclusi quelli che attraverso il possesso dell’oggetto cult vogliono amplificare la propria immagine pubblica, tolti quelli che cercano nell’acquisto collettivo una riprova sociale, come ha sostenuto lo psichiatra Daniel Bober intervistato dalla Cnbc, c’è qualcuno in quelle lunghe code o nelle liste di attesa che lo considera uno strumento per emergere, per costruirsi un’alternativa professionale, per lavorare? O, al contrario, siamo di fronte all’ennesimo incolmabile divario tra parti della società in perfetta contraddizione?

A Roma, la dichiarazione post acquisto della prima acquirente, incurante perfino di uova, farina e messaggio lanciati dal Blocco Studentesco, che riduce l’iPhone 6 Plus al “miglior telefonino che ci sia”, a uno schermo con una buona risoluzione e a un sostituito di una “macchinetta fotografica” (cito testuale), lascia piuttosto avviliti, così come le motivazioni addotte dagli intervistati nei vari telegiornali. Nessuno che ne abbia parlato come di un mezzo ancora più potente e professionale da utilizzare in mobilità o per scaricare app utili a semplificare, organizzare, condividere e gestire vita e lavoro. O utile proprio a inventarselo un lavoro, a far lavorare la creatività, a connettere persone, idee e progetti.

E l’Italia continua così, senza una vera cultura digitale e priva di una strategia per lo sviluppo tecnologico, a dividersi tra la fila per accaparrarsi tecnologia derubricata a status symbol e quella per partecipare, condividere, conoscere e scoprire le opportunità della Rete e delle tecnologie mobili, tra la fila al centro commerciale, il non luogo per eccellenza, e il movimento fluido e pieno di fermento tra le architetture medievali di Todi e le splendide fotografie di Steve McCurry. Tra l’immobilismo sempre più povero culturalmente e il dinamismo di chi guarda (e investe) nel proprio futuro.

di Marta Coccoluto 

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