Il Vertice sul Lavoro dell’8 ottobre a Milano, forse, alla fine, si farà. Anzi, a questo punto, si farà quasi inevitabilmente. Ma la sua preparazione sarà stata una vera e propria galleria degli orrori – ed errori – diplomatici: il punto più basso, finora, di questo semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Ue. E i risultati s’annunciano, fin d’ora, facili da sintetizzare: nulla, zero, chiacchiere. A parte, magari, uno show del premier sulla riforma – quale? – di casa nostra.

Gli ultimi sviluppi sono cronaca recente. Mercoledì 17, il sottosegretario agli Esteri Dalla Vedova annuncia la cancellazione del Vertice al Parlamento europeo in sessione plenaria. A giro di tweet, o altro social media, arriva la smentita di Palazzo Chigi, il Vertice si farà. Ma l’ufficio del portavoce della Commissione europea non ne viene informato. Così, ieri, giovedì 18, la portavoce Pia Ahrenkilde Hansen conferma che il Vertice è stato rinviato, rispondendo a domande di giornalisti nella sala stampa di Palazzo Berlaymont a Bruxelles. Poi, sollecitata dall’Italia, ritratta: il Vertice si farà e il presidente Manuel Barroso ci andrà.

Fin qui, la pantomima delle ultime 48 ore. Ma come sono andate davvero le cose?, chi ha deciso cosa?, e perché? Siamo in grado di ricostruirlo, con testimonianze certe di prima mano. Tutto comincia il 30 agosto, al Vertice delle Nomine. La Francia sente il bisogno di accelerare sul fronte della crescita e ha già lanciato l’idea di un Vertice sul tema; l’Italia si trascina dietro l’impegno di organizzare un seguito ai Vertici, informali e intergovernativi, dello scorso anno sull’occupazione, a Berlino e a Parigi, che – fiumi di parole a parte – non avevano prodotto risultati.

La bozza di conclusioni che circola fra le delegazioni il 30 parla di un Vertice sulla crescita e l’occupazione. Nel giro di tavola fra leader, la crescita sparisce. Nelle conclusioni della presidenza, resta l’appuntamento sull’occupazione, follow up dei precedenti, a Milano, l’8 ottobre. L’idea non entusiasma nessuno, ma ormai è detta: la Francia non ha ottenuto quanto voleva, l’Italia non ha nulla di pronto sul lavoro da sfoggiare con i partner, gli altri non ci tengono particolarmente all’ennesimo Vertice inconcludente, a una settimana dall’Asem – il Vertice Ue – Asia pure a Milano, con 54 delegazioni fra cui la Cina e l’India- e a due settimane da un regolare Vertice europeo di Bruxelles.

A un certo punto, Renzi decide: niente Vertice, non l’8, magari alla fine del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue. Partono le comunicazioni alle cancellerie degli altri 27 e, ovviamente, alle Istituzioni comunitarie. E’ a questo punto che il sottosegretario Dalla Vedova fa la sua comunicazione al Parlamento europeo. Però, proprio in quelle ore, il premier Renzi cambia idea: accelera sul lavoro sul fronte interno e decide che il Vertice si farà, incurante di smentire l’incolpevole Dalla Vedova, di rimangiarsi la comunicazione ai partner e di districarsi dai problemi di agenda nel frattempo creatisi.

Però, il secondo contrordine italiano non arriva alla Ahrenkilde Hansen, né viene rilanciato da tutte le agenzie di stampa internazionale, anche a causa delle modalità di diffusione carbonare scelte. Così, basandosi sull’annuncio di Dalla Vedova, la portavoce dell’Esecutivo conferma ai giornalisti la cancellazione del vertice sul lavoro previsto per ottobre: mestiere, in realtà, non suo, perché quell’appuntamento è inter-governativo, cioè al di fuori delle procedure comunitarie – e non ha quindi, detto per inciso, poteri decisionali -, e la Commissione vi è invitata, ma non ne è motore. Così, le tocca fare a sua volta marcia indietro e confermare l’appuntamento dell’8 ottobre a Milano.

Dove si arriverà senza nulla di concreto. Renzi potrà forse esibire ai partner il decreto sul lavoro e cercare di appassionarli alla riforma dell’articolo 18. La Commissione, agli sgoccioli del mandato – il 1° novembre, alla Barroso II dovrebbe subentrare la Juncker I -, non avrà pronte nuove proposte. E gli investimenti per la crescita e il lavoro da 300 miliardi del programma Juncker sono, ovviamente, di là da venire (e, dunque, per quanto Renzi li invochi in Parlamento, se ne parlerà solo dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo).

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