Cinema

“Belluscone” di Maresco: anatomia di una farsa in salsa siciliana

Al Festival l’ultimo film del regista. Doveva realizzare una pellicola sul Caimano, si è ritrovato a seguire il settantenne Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodici a suo agio con omertà, nostalgia e paradosso. In centinaia hanno applaudito la proiezione, ma lui ha disertato: “Non posso, sono depresso”

di Malcom Pagani

Voleva fare un film sulle ragioni del consenso berlusconiano in Sicilia. Si è ritrovato a seguire il settantenne Ciccio Mira, impresario locale di cantanti neomelodici a suo agio con omertà, nostalgia e paradosso. Per scoprire l’alchimia tra la dimensione corale della piazza palermitana, il sentimento popolare verso Silvio B. e la cultura individualista del ghè pensi mi, Franco Maresco ha dovuto perdersi e ritrovarsi. Prima e dopo l’epopea di Cinico Tv, un ribaldo ventennio fianco a fianco all’ex socio Daniele Ciprì, gli è capitato spesso. Dopo aver pensato alla rinuncia definitiva, Maresco ha cambiato oggetto d’indagine e prodotto a poco prezzo e in conclamata solitudine (complici Rean Mazzone con la distribuzione di Parthénos) un sublime trattato di antropologia contemporanea. Belluscone non è l’ennesimo film su Berlusconi, ma è molto di più. È un apologo sugli idoli. Sulle speranze liquide. Sulle sconfitte e sugli orizzonti che comunque non promettono vittorie.

Un viaggio in un’Italia senza direzione in cui si rimane fermi, impantanati ai blocchi di partenza. Un Videocracy senza traccia di moralismo, più vicino ai banchetti della Prima comunione che alle terrazze di Lele Mora. Con umorismo e ironica pietà, bianco e nero e colori, periferie, sudditi e regnanti messi sotto la lente d’ingrandimento di una semplice curiosità, Maresco ha restituito il senso di due universi inconciliabili. Quello della Palermo di ieri, legata al silenzio di una mentalità “associativa” in cui la parola Mafia non si pronuncia mai, i carcerati sono “ospiti dello Stato” e a loro non si nega un saluto in diretta tv da una delle mille antenne private che circondano il Monte Pellegrino e quella di oggi che è anagraficamente giovane, della Mafia sa poco o nulla, del 23 Maggio del ’92 e del 19 luglio dello stesso anno non ha memoria e ballando al suono di canzoni dal titolo profetico: “Vorrei conoscere Berlusconi” o imitando pubblicamente l’ex Premier come non accadrebbe mai in Brianza, nell’appendice del sogno di Arcore vede solo un trampolino per arrivare a cantare nello studio di Maria De Filippi.

Portato fino a Venezia. Per realizzare Belluscone, iniziato nel 2011 e portato a Venezia, sezione Orizzonti, tra gli applausi lunghissimi e convinti di pubblico e selezionatori, a Maresco è servito coraggio perché, suggerisce lui con disincanto che mai confina col piagnisteo: “La vita è un disastro”. A Venezia, in Sala Darsena, mentre centinaia di persone in piedi urlavano “Franco, Franco” battendo le mani, Maresco non c’era: “Non ce l’ho fatta a esserci soffro di depressione, una malattia. Parlarne è molto difficile, me la porto dietro da anni. L’ho prima sottovalutata e poi curata, ma in questi ultimi due mesi la situazione si è aggravata. Ho dovuto, voluto finire questo film nonostante non ci credesse nessuno e ora sono fisicamente e mentalmente provato”. Il sospetto è che il periplo sulla Palermo di oggi, la fotografia feroce che Maresco gli dedica, l’occhio da Ionesco fuori latitudine sui vizi di una landa marginale in cui lo Stato ha da tempo abdicato alle proprie funzioni, non farà sorridere proprio tutti: “Casini, con questo film ne avrò sicuramente. Io a Palermo vivo e con Palermo devo fare i conti”. Se Ciccio Mira, il suo David Zard di provincia con il gessato d’ordinanza, si è prestato a un racconto non sempre apologetico accettandone lo spirito di fondo: “Lo adoro, in fondo Belluscone è un film su di lui. L’ho seguito per due anni e mezzo innamorandomi dei suoi racconti in bilico tra mitomania e naturalezza, lui si è rivisto ed è stato fiero di partecipare”, altri lamenteranno attenzioni eccessive e conseguentemente, non c’è dubbio, si lamenteranno. Intanto c’è un ritorno, quello di un talento e di un’intelligenza che sembravano smarriti.

Franco Maresco, 56 anni, la bestia rara che nell’Italia che pur lo ripugnava, Carmelo Bene avrebbe salvato volentieri trovandogli un posto sull’Arca: “Me lo ricordo ed è una delle pochissime cose di cui vada veramente fiero, però le dico la verità. Sono un pessimista e in fondo, mi atterrisce anche la reazione positiva del pubblico. Ho uno spiccato senso per l’inutilità delle cose, per le esagerazioni, per il microcosmo effimero che tutto trasforma, innalza e brucia in un istante”. Il dubbio di Maresco è “che non rimanga nulla” e che anche l’attesa dell’evento: “sia un giochino mediatico che interessa ai giornali, ma non mi appartiene”. In un’epoca lontana: “Quando ero giovane e meno sfasciato di adesso, viaggiavo di più e ci credevo di più avrei sorriso. Oggi quella smania non esiste più e sono evaporati anche entusiasmi e speranze”. Ed è strano ascoltarlo, il lucido, ma cupo argomentare di Maresco, se si pensa a Belluscone, un’ora e mezza in cui si riflette non meno di quanto non capiti di ridere. Non gli interessava, dice il regista: “Distinguere bene e male i cui confini, come mi aveva già spiegato Gay Talese, sono labilissimi” ma raccontare la distanza tra giovani e vecchi.

Tra un universo che comunica attraverso Facebook, ma per farlo ha ancora bisogno di chi della tecnologia, degli smartphone “e della loro violenta, sbranante intrusione nel quotidiano alla quale non mi rassegno e che fatico a tollerare” sa il minimo indispensabile. Quelli come Ciccio Mira. Gente che un proprio profilo Facebook, per ragioni di mera imprenditorialità territoriale lo possiede, ma ancora fida nelle mani strette vigorosamente alle vecchie del quartiere. Maresco sta con loro. E quando il patto salta, ci rimane male. Con Ciprì: “Con cui avevo in comune l’ascendenza familiare piccolo borghese, quando non adirittura proletaria”, l’antica amicizia sbiadisce nel ricordo: “Non ci parliamo da anni, dal 2007. Totò che visse due volte, con le sue faticose storie di censura frammiste ai casini privati dell’esistenza, fu il film che determinò una prima battuta d’arresto tra noi. Di crisi della coppia. In seguito, proprio a Venezia, qualcuno parlò di rinascita comune, ma forse eravamo forse troppo stanchi per ritrovarci davvero. Si era interrotto qualcosa e non trovammo il filo giusto per riannodare l’affetto. Daniele voleva fare altro. Lui si diverte fisicamente a lavorare intensamente e se gli togli il set, praticamente, gli spari. Daniele ama la tecnica e detesta l’inazione e lo stare soli con se stessi, mentre io non posso rinunciare alla solitudine e con il cinema ho sempre avuto un rapporto più sofferto e complicato. É chiaro che lui ha avuto, meritandola, molta più fortuna di me. È un direttore della fotografia straordinario, ha un’innata predisposizione per l’immagine ed è una macchina iperproduttiva che a volta ti fa chiedere ‘ma da dove cazzo prende tutta questa energia?’. Non nego che in un primo momento ho covato nei suoi confronti molta rabbia e molto risentimento. E indietro, quando provi sentimenti simili, nei rapporti umani non si torna”.

Pausa: “Lui è ormai considerato malleabile, spendibile. A me invece è rimasta la patina di chi fa delle cose interessanti, ma in fondo resta inaffidabile. Forse nel dirlo mi faccio un danno da solo, ma posso assicurare che la mia aura maledetta è leggenda. La verità è che quando arrivo io, non so com’è, il budget è sempre esaurito”. Se l’alterco con Ciprì non è più reversibile: “Lui sa perché abbiamo litigato, ma io la ragione non la svelerò mai. Spero per lui che le scelte che ha fatto lo facciano stare bene. E chissà che poi non avesse ragione lui” rimangono intatte le ragioni, “la rabbia” che, giura Maresco, fu la scintilla iniziale del navigare comune. “Da ragazzino ero pazzo del cinema americano classico, quello dei perdenti, del destino che alla fine non lo fotti mai ed è sempre lui a fottere te. Sono passati i decenni, ma continuano a piacermi le storie degli sconfitti, degli illusi che si perdono per vanità e ambizione”.

Nell’immaginare Belluscone, Maresco è stato così umile da cancellare il progetto iniziale: “Un’inchiesta su Berlusconi” per divagare altrove: “Volevo fare una cosa alla Santoro, ma a un certo punto, dopo aver intervistato decine di giornalisti, mi sono accorto che non sarei stato in grado di trovare la chiave giusta”. Così Maresco ha cambiato radicalmente prospettiva, lasciando in Belluscone alcune perle dello slancio originario. In Belluscone, su un trono in lontananza, si vede anche un inedito, rilassatissimo Marcello Dell’Utri, parlare liberamente delle fortune del vecchio amico lombardo sull’isola natìa. “Lo chiamai: ‘Sono Maresco, forse lei si ricorderà di Cinico tv e magari quell’esperimento le faceva anche schifo”. Lui fu gentile: “Lo trovavo un po’ greve, ma mi piaceva. Vediamoci”. Si videro. A metà incontro, quando Dell’Utri dice che se Berlusconi raccontasse la sua vera storia uscirebbero “verità tremende”, l’audio si interrompe, si imbizzarrisce, diventa incomprensibile: “La storia dell’audio interrotto è vera, avrei voluto uccidere il fonico. So che sembra assurdo, ma tutte le cose più apparentemente assurde che si vedono nel film sono vere. Io sono superstizioso e come saprà, più si è superstiziosi e più si attirano gli eventi negativi. In quel caso specifico, una spiegazione razionale non c’era. Il fonico, un amico, era ed è un professionista fidatissimo, ma nonostante un estremo tentativo di recupero, non ci fu niente da fare”. L’intervista con Dell’Utri, dice Maresco, gli ha insegnato tante cose: “La prima è sui rapporti ancestrali che legano le anime della mia città. Non avevamo un soldo e volevamo girare in teatro. Dopo aver girato per le famose sette chiese, chiediamo aiuto proprio ai salesiani. Fanno un prezzo, poi vengono a sapere della presenza di Dell’Utri e come per magia il prezzo cambia e diventa quasi inesistente”.

L’intervista interrotta. Sorride finalmente Maresco, sorride a questo piccolo grande film: “che consideravo perso e che grazie all’aiuto di fratelli come Pietro Marcello e Tatti Sanguineti invece è sopravvissuto come una creatura di Frankenstein agli scherzi del destino”. Sorride anche a se stesso. Al suo domani. Alla sincerità. A un nuovo via che in qualche modo prenderà il largo: “Lo spero e ci credo perché vivo di questo. Alla mia età è difficile ricominciare facendo altro. Quando uno ha costellato la propria esistenza di errori e io sono una di quelle persone che non ha costruito un futuro per sé e ha sperperato le grandi occasioni che la vita mi ha messo sotto il naso, a lavorare sei costretto . Però quando una cosa la voglio fare veramente, la faccio. È vero, ho le mie asperità caratteriali e vivo a Palermo che è ancora un luogo periferico. Servono carattere e forza, energia e pelo sullo stomaco per uscirne”. Maresco non dice dove li troverà, ma Belluscone è un indizio di non poco conto. 

da il Fatto Quotidiano di lunedì 1 settembre 2014

“Belluscone” di Maresco: anatomia di una farsa in salsa siciliana

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