Forse dobbiamo ammetterlo. La grande impresa non è nelle nostre corde. Non è roba per noi. Non più. Andate. Le avevamo in passato, lo scorso secolo. Ansaldo, Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison. Industrie della meccanica, siderurgia, chimica, cantieristica, ferroviario –continuate voi l’elenco. Aziende basate su ordine e disciplina, con a capo un leader carismatico che gestisce con pugno di ferro, garantendo però al contempo assistenza, protezione, sicurezza dell’occupazione e del futuro, incentivi salariali.

Ai dipendenti chiede la fedeltà all’azienda, ai suoi valori e caratteristiche, ai suoi obiettivi. Funzionavano, crescevano, prosperavano e con esse il paese. Poi, all’incirca a metà degli anni 1960, le cose cambiano. Le grandi corporation americane diventano modello da imitare. Solo il sempre più grande è bello e potente. Bisogna crescere, accorpare, fondersi. La grande impresa diventa un agglomerato, dove ci si occupa di tutto: basti pensare alla Fiat dei primi anni 1980. I gruppi industriali italiani sono affetti tutti dallo stesso difetto genetico. Presentano architetture più o meno complesse, ma sempre gerarchiche, al cui vertice c’è la mitica o famigerata holding le cui partecipazioni sono controllate da famiglie: Agnelli, Falck, Piaggio, Pirelli…. Poche e selezionate.

Famiglie che si conoscono e frequentano gli stessi “salotti buoni”. Nei salotti eleganti non si litiga: si dialoga, ci si accorda. Non si compete, ma si impiccia, si imbroglia. Comportamenti dalle conseguenze nefaste: collusione, scarsa concorrenza, insufficiente sviluppo. Non che le holding pubbliche fossero meglio. Da allora a oggi, la loro storia è un elenco di occasioni perse, investimenti mancati in ricerca e sviluppo, opportunità in settori innovativi e ad alta tecnologia non colte, strategie miopi e mal eseguite, incapacità dei vertici.

Oggi le grandi imprese, navigano con difficoltà nel mare delle piccole e medie imprese, basate sulla grande e preziosa maestria artigianale dell’Italia, con  caratteristiche di flessibilità, adattabilità, velocità che consente loro di cavalcare i cambiamenti tecnologici e la globalizzazione dei mercati, che crescono, dando linfa al sistema economico nazionale. Sono efficienti, competitive, dinamiche, creative. Alimentano e vengono alimentate dai distretti industriali specializzati in determinati comparti, basati sulle tradizioni, cultura, etica locali.

Soprattutto sono aziende nelle quali gli addetti si riconoscono nell’azienda stessa perché, in caso di necessità, si può chiedere aiuto all’azienda sapendo di riceverlo. L’azienda è considerata la propria famiglia estesa. Lavorare per essa è motivo di orgoglio, di appartenenza. Evita accuratamente di adottare logiche manageriali importate, spesso dagli Usa, sostituendo alla competenza la speranza. Non gradiscono le visite insistenti degli spacciatori delle società di consulenza di grido. “Noi non siamo USA”, dicono, “siamo vecchia Europa; non siamo educati alla cultura della delega e del commitment, leggi assunzione di responsabilità e obbligo di rispondere in prima persona delle proprie azioni”.

Noi con la delega abbiamo grosse difficoltà. L’attività principale degli Amministratori Delegati delle poche, sopravvissute grandi imprese italiane, è il controllo, non la definizione degli obiettivi di crescita, di generazione di ricchezza e successiva implementazione delle loro strategie di attuazione.

Il sistema industriale italiano è strano, peculiare, diverso. Poche grandi imprese, non amate. Molte medio-piccole. Forse invidiate, ma con grandi problemi di crescita. Google, Facebook, Dell, Microsoft, Cisco, non parlano italiano. Le piccole e medie imprese rimangono piccole e medie.

Prendiamone atto, smettiamo di preoccuparci delle debolezze, rafforziamo i nostri punti di forza. Invece di continuare a sprecare risorse per farle diventare grandi, aiutiamole a collegarsi fra loro, a diventare organismo, insieme complesso di sotto-sistemi ottimizzati. Facciamo crescere, a scala di sistema paese, le dinamiche presenti nelle piccole realtà locali dei comprensori industriali. Diamo sostegno alle attività di ricerca e sviluppo, alla formazione –seria, selettiva e meritocratica- di ogni ordine e grado, facilitiamo il fare impresa. Non servono chissà quali politiche centralizzate. Basta non demotivare le persone. Persone, non risorse umane. Le persone sanno sognare. Le risorse umane no.

 

Articolo Precedente

Più moralità fiscale contro l’evasione

next
Articolo Successivo

Europa: basta alla giustificazione culturale dell’austerity

next