Ridurre le diseguaglianze è ormai una delle costanti di molti programmi politici. La domanda da porsi adesso è perché nulla, o molto poco, nonostante i tanti discorsi, venga effettivamente realizzato. “Who Votes Now?” (“Chi Vota Adesso?”), il libro di Jan E. Leighley dell’American University di Washington e Jonathan Nagler della New York University, tenta di rispondere al quesito. Che è particolarmente rilevante nel contesto americano, dove l’anno della prima elezione di Barack Obama nel 2008 ha visto la partecipazione record dei votanti: il 61.6 per cento del totale. Nel loro studio Leighley e Nagler analizzano i dati elettorali delle presidenziali americane dal 1972 al 2008 e concludono che le diversità di condizione sociale e ceto tra chi vota e chi non vota sono il fattore fondamentale per spiegare il divario tra la retorica contro le diseguaglianze e la mancanza di misure effettive volte a ridurle. Sesso e etnia degli elettori, invece, non hanno alcun effetto sull’esercizio del diritto al voto. Come spiega Nagler a ilfattoquotidiano.it, “in media sono le donne a votare più degli uomini e le differenze tra gli aventi diritto al voto afroamericani e quelli ispanici rispetto ai bianchi sono ormai trascurabili”.

Quale il significato di queste conclusioni? Siccome a presentarsi alle urne sono per la maggior parte individui con un reddito mediamente superiore rispetto alla media nazionale, risulta poco probabile che i candidati alla Casa Bianca difendano con l’attività di governo riforme che puntano a una redistribuzione del reddito. “Who Votes Now?” dimostra inoltre che, mentre le politiche economiche sono sempre a favore del libero mercato (anche se in forme più o meno regolamentate dallo Stato), sulle questioni sociali – come matrimonio gay e liberalizzazione della marijuana – le misure e le riforme della politica siano invece molto più concrete e diversificate. 

I due docenti, però, non affrontano alcune domande fondamentali. Se, come in Australia, ci fosse l’obbligo di andare a votare e l’affluenza fosse quindi vicina alla totalità degli elettori, di quanto cambierebbero i risultati finali delle presidenziali americane?. E il partito democratico si sposterebbe più a sinistra se quel 40 per cento di astenuti si presentasse alle urne? Infine, il modello concepito dai due professori americani è applicabile in paesi come l’Italia in cui la partecipazione elettorale è molto più alta (alle politiche del 2013 i votanti sono stati il 75.13 per cento).

Nagler a ilfattoquotidiano.it spiega che nel sistema italiano, il suo modello sarebbe meno utile per le analisi politiche. La maggior parte dei Paesi europei infatti, Italia inclusa, ha sempre avuto un partito socialista molto più a sinistra di quello Democratico americano. Partiti che, peraltro, hanno storicamente raccolto i voti dei ceti più poveri, che rappresentano circa il 40 per cento delle persone che negli Stati Uniti non va a votare. Le conclusioni del docente dell’American University concordano peraltro con i dati evidenziati da Tito Boeri dopo la vittoria alle primarie di Matteo Renzi nel 2013. Il sindaco di Firenze ha mediamente attratto il voto degli elettori del Pd con un reddito più alto della media. Il neo-segretario, per quanto riguarda la politica economica, si assesta su posizioni di centro e liberal, più vicine al modello americano di quelle tradizionalmente più redistributive di un’altra parte della sinistra italiana. Non è chiaro se questo si tradurrà in politiche di minor redistribuzione, ma il libro di Leighley e Nagler lascia intuire questa conclusione.

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