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Lello Arena: “I miei sessant’anni tra Troisi, manganelli, comunisti e mezze aragoste”

Una famiglia di sinistra poco convinta della professione di attore, le manifestazioni e le cariche della polizia, il palco dell'oratorio, l'incontro fondamentale con l'amico Massimo e un'amicizia che si rinnova nel ricordo: chiacchierata con l'attore napoletano in occasione del suo sessantesimo compleanno

di Alessandro Ferrucci

Tra pochi giorni, il primo novembre, compie sessant’anni. Le date possono anche servire per fare bilanci, per capire, prendere la matita rossa o blu, a seconda dei gusti, tracciare una linea, sbrogliare matasse di ricordi. Quindi parlare di se stessi, dare sfogo all’io imperante, un io esposto sul palco da quaranta e più anni. Con Lello Arena tutto questo è relativo, tra un ricordo e un altro c’è un richiamo costante, suo, lo custodisce con rispetto, da testimone consapevole: quello dell’amico Massimo Troisi, morto a giugno del 1994 ad appena 41 anni “e anche lui a febbraio scorso ne avrebbe compiuti 60. Sì, siamo coetanei, cresciuti insieme dentro un oratorio. In quel luogo è nata la magia”.

Il vostro primo incontro?
Al teatro della parrocchia, avevamo 13 anni.

Mai conosciuti prima?
No, ma lui aveva una fama leggendaria, perché era iper-attivo politicamente, era dentro a dei comitati, ma frequentavamo istituti diversi, lui geometra io magistrali.

Da dove arrivava la fama?
Quando andava alle assemblee studentesche chiedeva sempre la parola perché era uno con delle idee già formate. Con un però: il suo stile, la sua mimica facciale e anche un punto di vista strampalato rispetto all’epoca, provocavano ilarità. Quindi esprimeva concetti agguerriti con una platea che rideva sempre. Ne usciva addolorato e ci chiedeva: ‘Ma che vita mi aspietta se la gente ride quando dico cose serie?’.

E poi?
Stavamo mettendo in scena un piccolo spettacolo per la parrocchia di San Giorgio a Cremano, uno degli attori dà forfait. Arriva il regista e fa: ‘Possiamo prendere questo ragazzo, pare faccia ridere molto’. Era Massimo.

Come andò lo spettacolo?
Dirompente. Il suo ruolo era quelle del salumiere che si presenta con un paniere di prodotti: doveva solo elencarli, libero nella sequenza. Macché, si ostinava a rispettare la scaletta, ma non riusciva a memorizzarla, così in scena era un continuo interrompersi e ricominciare, il pubblico con i crampi per le risate. Alla fine mi disse: ‘Sscusa, ma è questo il teatro?’ Sì. ‘Ma ti posso venire a trovare qualche volta?’. Certo, sono in via Recanati .

Nato il sodalizio.
Sparì per mesi, poi un pomeriggio d’estate sentii citofonare: ‘Ti ricordi di me? Posso salire?’. Fu una fortuna.

Il palco vi aiutava con le ragazze?
Per me no, lui era molto appassionato del genere e i guai arrivarono ai tempi della Smorfia.

Quali guai?
Non c’erano cellulari e Massimo non sapeva gestire certe situazioni, andavano smistate anche tre spasimanti.

Troisi torna spesso nei suoi discorsi.
Anche se non volessi pensarci, sarebbe impossibile: il novanta per cento delle persone che mi ferma, chiede di lui.

Un po’ le scoccia?
No, penso sia una buona funzione rispetto a come ognuno di noi si rapporta con il mondo.

Non ha partecipato al suo ricordo in Rai.
Ho avuto alcuni contatti, ma la serata era stata data in prima battuta a Enzo De Caro, poi ad Anna Pavignano, infine a me. Alla prima riunione mi sono reso conto dell’impostazione sbagliata: Massimo era ai margini.

Momento chiave della sua vita?
Andare a vivere a San Giorgio a Cremano: quando avevo dodici anni i miei acquistarono casa lì, Napoli era cara.

E lei?
Sono appena dieci chilometri di distanza, ma nel primo periodo li ho maledetti, li ho accusati di egoismo, di volermi rovinare la vita, di volermi assassinare, da quello che consideravo il centro, mi portavano in periferia. E invece stavano costruendo il mio futuro, un futuro di passioni, ideali, cinema. Che non sarebbe mai stato possibile se non avessi avuto la possibilità di incontrare Massimo.

In quale famiglia è nato?
Impiegati alla manifattura tabacchi, due operai. Mio padre per un certo periodo ha rigenerato le sigarette di contrabbando: arrivavano le bionde sequestrate, selezionava le categorie e valutava quelle che potevano rientrare nel circuito legale. Poi lo hanno spostato al ruolo di cuoco della mensa.

Un padre chef.
Un tipo serissimo. Gli affidarono un budget settimanale per la spesa: iniziò a comprare aragoste, mezza a testa. Tutti sconvolti. Scoprirono che i suoi predecessori rubavano.

La politica entrava in casa?
Comunisti veri. Militanti. Insieme alle manifestazioni.

Ha mai preso una manganellata?
All’università sono stato menato da tutti i celerini di Napoli, ero sempre ridotto in pezzi.

Sfortunato o molto attivo?
Nooo, la seconda. Ero sempre lì, mi piaceva e a Napoli le forze dell’ordine erano organizzate, sapevano bene dove, come e chi menare. Alcuni celerini li ho incontrati dopo molto tempo. A sono arrivato a dirgli: ‘Senti, picchiami sempre tu, almeno so che mi fai un po’ meno male’.

Da incendiario poi sarà diventato pompiere…
Mica tanto. Nel 1994, sul set di Facciamo paradiso abbiamo girato una scena all’università sulle occupazioni: mi hanno dovuto bloccare, non capivo più niente, pensavo fossero celerini veri e mi difendevo con la mazza del pennone.

Suo padre solidale?
A un certo punto è diventato cattolico-praticante e con il voto sull’aborto scoppiò una tragedia casalinga: io e mamma favorevoli, lui no. Per dieci giorni non ci ha parlato.

Cosa pensavano della sua carriera?
Mia madre diceva ‘dove ti avvii, come fai?’. Per lei gli attori dovevano essere belli come Cary Grant, non come me.

Poi avrà cambiato idea.
Ricordo una giorno, siamo tutti in casa. I miei davanti al televisore mentre la Rai trasmette un programma registrato con noi della Smorfia. E mia madre: ‘Mo’ questo sta lì, ma quanto dura? ma che è un mestiere?’ Non solo. Una sera vengono a teatro Metropolitan, tremila paganti, e lei: ‘Oggi è così, chissà domani’. Un continuo.

Come reagiva?
Risolse tutto mio padre, quando decise di chiudere la questione con una frase storica: ‘Addolorà, finché non se ne accorgono fallo fa!’

Da cattolico praticante come giudicò lo sketch di “Annunciazione”?
I problemi veri non nacquero in famiglia, dopo il primo passaggio in tv siamo stati denunciati per vilipendio alla religione di Stato.

Chi vi denunciò?
Arrivarono in Rai centinaia e centinaia di proteste, tutte le associazioni religiose. Siamo finiti in tribunale”.

E voi?
Stupiti, non capivamo. Ma la situazione si risolse in maniera semplice: il giudice ci chiese: ‘Volevate vilipendere la religione di Stato?’ No, era solo un pezzo comico. ‘Va bene, andate’.

Resta uno dei pezzi più famosi.
La Rai per anni lo ha chiuso nelle teche, temevano altre denunce. L’unico che si è preso la briga di farlo riemergere è stato Renzo Arbore. Pensi, la vestaglia di mia mamma è finita in un museo dei costumi dell’attore.

Come, scusi?
Ci hanno chiesto il costume di Gabriele in Annunciazione e quella esposta è la vestaglia di mamma.

È prevista una fiction sulla storia di lei, Troisi e De Caro.
Una strage annunciata.

Addirittura…
La nostra è una vicenda così avventurosa, straordinaria, complicata, nata anche per caso. Leggerla in maniera banale come una storia di ragazzini che da piccoli giocavano a pallone e che poi diventano artisti è sbagliato. Se racconti questo offendi la qualità del guizzo geniale che la vita può avere, a prescindere da noi. Se vuoi raccontarla devi narrare lo straordinario.

Però giocavate a pallone…
No, io non volevo, ero costretto da Massimo, lui in realtà sognava una carriera da calciatore, io ero appassionato di rugby, sono arrivato fino alla serie D. Poi quando siamo diventati famosi è nata una squadra per beneficenza. Abbiamo giocato al San Paolo.

Anche lei?
Per forza! Massimo mi diceva: ‘Se non vieni non ti parlo più per tutta la vita. Non sai cosa cazzo ti perdi’. Aveva ragione, c’era anche Maradona a dare il calcio d’inizio e Mennea nella nostra formazione che partiva di corsa, palla tra i piedi, e mi urlava: ‘seguimi’, ma quando mai! Ecco, questi momenti qui, se non li racconti, non puoi capire la straordinarietà di un progetto che non ci riguarda, noi abbiamo solo accettato di far parte di questa situazione, noi ci abbiamo messo la disposizione d’animo. Mentre qui prendono tre attori e vogliono banalizzare tutto.

Fabio Troiano sarà Trosi.
Ma non può! Se qualcuno mi dicesse: ‘E’ arrivata una major americana e devi interpretare Chaplin’, mi rifiuterei! Bisogna avere il coraggio di dire no.

Chi interpreterà Lello Arena?
Nic Nocella. Al massimo potrebbe fare mio figlio adesso, ma non ha niente a che vedere rispetto a me dell’epoca. I fan club sono scatenati , tutti giorni attaccano Valsecchi, produttore della fiction: uno come lui dovrebbe rinunciare a questo tipo di guadagni.

Ha mai rinunciato a qualcosa per stare con Troisi?
Esce Ricomincio da tre prodotto da Fulvio Lucisano, il quale pretende di realizzare anche il secondo film. Massimo gli risponde ‘vedremo’, tanto per sondare il mercato. Dopo un po’ lo stesso Massimo mi spiega che se non avesse accettato, Lucisano avrebbe fatto saltare anche l’accordo per il mio esordio dietro la macchina da presa. E io: ‘non ti preoccupare’. Ebbene, dopo il ‘no’ definitivo di Massimo a Lucisano, ho trovato tutto il mio materiale fuori la porta, su un pianerottolo. Va bene così, eravamo realmente solidali.

Ora c’è Siani a portare in giro la napoletanità.
E’ un grande manager. Mi dà l’idea di uno che sa alla perfezione come vanno le cose, come colpire. Non capisco la sua tendenza a chiudersi dentro luoghi comuni su Napoli.

Rispetto alla sua generazione, a chi è legato?
A molti, noi napoletani siamo una comunità. Non è difficile incontrarsi, sentirsi, più complicato realizzare cose insieme. In particolare con i fratelli Servillo, poi Enzo Evitabile, Gabriele Sepe.

Da un po’ manca dalla tv.
Mi avranno chiamato dieci volte, altrettante ho risposto di no, è giusto non ci sia la undicesima. E comunque sono stato abituato male, ho fatto il grande varietà di prima serata, poi Scherzi a parte e Striscia la notizia.

Cosa guarda in tv?
Striscia, ci lavorano ancora i miei amici.

Non va più benissimo
Si è persa un po’ l’idea originaria. Un tempo si andava in onda con la tensione di dire ‘chissà cosa accade questa sera’, la ricerca dello scoop. Rompevamo le palle.

Si divertiva?
Tanto, con Enzo Iachetti tantissimo. E poi Antonio Ricci era molto propositivo, a caccia di rogne. Un gruppo straordinario, giocavamo il pomeriggio a biliardino, battute, poi scaletta, cena, magari cinema. Una famiglia. Certo ora con quei due baccalà mezzi nudi…

Li hanno tolti
Ho chiamato Antonio è gli ho detto ‘non si fa così, ai miei tempi le Veline erano molto più vestite, c’è discriminazione, dovevano stare in topless!’

I suoi figli?
Ne ho due, la prima ha 26 anni, il secondo nove. La grande è attrice.

Consigli?
Inizialmente evitavo di seguirla, poi capii l’errore. Ora cerco di esserle di supporto anche per le questioni pratiche.

La trova brava?
A me piace molto, è fuori registro nel senso positivo, ma per le attrici è tutto più complicato, devono essere gradevoli, di talento; devono resistere a tutte le naturali ostilità dell’ambiente dedicate al femminile. Poi quando sono in platea mi gioco sempre un paio di coronarie.

Il piccolo?
A lui per ora ho trasmesso la passione per la magia, lo porto con me alle riunioni dei prestigiatori dove ci scambiamo i segreti del mestiere.

Il suo studio è circondato da fumetti…
Ho imparato l’inglese grazie a loro.

E come?
A Napoli, quando ero piccolo, arrivavano quelli statunitensi in lingua originale. Ne compravo in continuazione. Dopo anni vado in Inghilterra e lì non solo scopro di capire la lingua, ma di essere anche in grado di esprimermi, ma con un vocabolario fumettistico. Tutti gli interlocutori mi guardavano con un’aria tra l’interdetto e l’incuriosito.

Cosa non rifarebbe?
I compromessi: quando cedo mi incazzo, non mi riconosco.

Non le ha mai pesato questo legame con Troisi?
Per me è una grande gioia anche oggi. Oh, lui era Massimo! Essere secondo? A lui ben venga, forse non è chiaro di chi stiamo parlando.

Twitter: @A_Ferrucci

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