Cultura

Vajont, 50 anni dopo la strage. Lassù qualcuno soffre ancora

Il capitolo non può chiudersi, perché non c’è niente da chiudere finché ci saranno persone che da allora non dormono la notte, provati da una tragedia voluta e consumata in nome della nazionalizzazione dell’energia elettrica

di Emiliano Liuzzi

Erano le 22 e 53 minuti. Morirono 1910 persone, quella sera. Gente di scorza dura, montanari di un Veneto che non è mai stato veneziano né navigante. Contadini che non avevano letto la Divina commedia, manco sapevano cosa fossero le vie della seta: loro facevano all’amore con la terra. E sapevano che in qualche modo, quella stessa terra, gliel’avrebbe fatto pagare quel tradimento che avevano voluto gli uomini. Si sarebbe ribellata alla violenza. Loro la guardavano muoversi, la frana, perché bastavano due occhi e le scarpe grosse, sentivano in cuor loro che poteva finire da un momento all’altro. Vaglielo a spiegare che non c’entravano nulla, che erano stati quelli là venuti da lontano, a volerle far male. Qualcuno l’avrebbe pagata. L’avrebbero pagata loro, colpevoli di non averla difesa.

Ma guai a dire, come scrissero Giorgio Bocca e Dino Buzzati allora, che era una tragedia naturale. No: vennero condannati i vertici della Sade, l’istruttoria del giudice Mario Fabbri, al processo a L’Aquila fu chiara: le responsabilità furono di coloro che la diga la vollero e la costruirono. Nonostante sapessero. Fu una tragedia di Stato voluta da quello Stato. E da quella Democrazia Cristiana. Altro che “sasso in un bicchier d’acqua”, per dirla alla Buzzati. Altro che responsabilità dei comunisti, come scrisse Indro Montanelli. Nomi, cognomi e anno di nascita dei colpevoli. Punto. Evitiamo che resti bianco questo maledetto foglio.

E così non si può che iniziare dalla fine e dal luogo: la sera del 9 ottobre, 1963. Longarone, provincia di Belluno. Da due anni è entrata in funzione una diga considerata un’opera di ingegneria moderna, una specie di Titanic, invece che spezzarla in due, la deve sorvegliare l’acqua. E produrre l’energia elettrica appena nazionalizzata. Si chiama Vajont. L’uomo che la inventò morì prima di vederla in funzione, ma sapeva forse già quale sarebbe stato l’epilogo. Perché la diga era costruita a ridosso di una frana, perché l’ingegneria di quegli anni non si confrontò, o non volle confrontarsi, con quella che era la geologia. Rimasero un pugno di contadini, ascoltati da una giornalista, donna e comunista, dunque poco credibile nell’Italia di allora: Tina Merlin.

Le 22. 53, dicevamo. In un paio di bar avevano il televisore sintonizzato su una partita, Real Madrid-Glasgow Rangers. Niente di fondamentale, ma le sere gli uomini le passavano così. Giusto arrivare alla mezzanotte, per rialzarsi alle sei, forse prima. Dicono che dal boato alla morte passarono quattro minuti, ma la sensazione della morte non ci fu, perché fuori era buio e l’onda che travolse da una parte Longarone, dall’altra Erto e Casso, era buia. Non ci fu niente, dopo. L’acqua si portò via tutto: donne, vecchi e bambini, le loro case, i loro bar. I giornali di allora non capirono neppure bene dove fosse questo posto. Un fotografo storico di Belluno, Bepi Zanfron, partì perché gli dissero i vigili del fuoco che si era rotta una tubatura e forse c’erano cinque o sei morti.

Quando arrivò si trasformò in soccorritore di quasi nessuno: i morti furono 1910, i feriti lievi appena 95, gli altri, quelli gravi 49. Due gravissimi. Questo fu. Per la prima volta, oggi, Longarone ha un sindaco nato dopo la tragedia, Roberto Padrin: “Tendo a escludere che ci sia stato il dolo. Non voglio crederlo anche di fronte agli errori macroscopici che uomini di scienza commisero. Anche perché non c’è giustizia senza perdono”. Non la pensano come lui molti altri, che continuano a chiedere giustizia. Troppi processi, troppe promesse, rinvii. E troppe verità che allora vennero omesse.

Il capitolo non può chiudersi, perché non c’è niente da chiudere finché ci saranno persone che da allora non dormono la notte, hanno paura dell’acqua. Persone con sindromi ansiose, e a Longarone sono in percentuale maggiore rispetto ai paesi, dove invece il Vajont lo sentirono senza vivere la distruzione in prima persona. Ma andateci lassù, dove la diga fierissima guarda il basso dai suoi duecento metri. E lo sentirete quell’odore delle 22 e 53. Il vento può stropicciarti la faccia quando decide che deve essere così. Basta restare con gli occhi ben aperti e lo rivedrete tutto quel film dell’orrore che l’Italia ha voluto sotterrare nel cimitero di Fortogna, lì, a pochi chilometri di distanza, dove molte croci sono rimaste bianche perché i corpi ai quali riuscirono a dare un nome sono meno della metà.

Fu una strage, voluta e consumata in nome della nazionalizzazione dell’energia elettrica. E la giustizia la fece quel giudice piccolo di statura, ma con un cuore così e i nervi d’acciaio, Mario Fabbri. La fece la giornalista, Tina Merlin, che denunciò prima di ogni altro quello che sarebbe accaduto. La Sade, che poi diventò Montedison e altro ancora, ebbe anche il coraggio di denunciarla. Ne uscì assolta. Nonostante fosse una donna, nell’Italia claustrofobicamente perbenista di allora. E comunista.

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