Marco Tronchetti Provera è mitologico per la quantità di denaro che intasca comunque vadano le sue aziende. Ma anche per la sua natura doppia. Egli è il proprietario delegato, il manager di controllo, il padrone di riferimento. Un ossimoro tappezzato Caraceni, un minotauro, padrone quando deve comandare, manager quando parla dei suoi stipendi. Tronchetti è il simbolo di un capitalismo devastato dai conflitti d’interesse. Negli anni 90 lo chiamavano “il nuovo Agnelli”, adesso incarna la sorte infausta del “capitalismo di relazione”, un’oligarchia che facendosi gli affari suoi sta trascinando nel baratro centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Il soccorso interessato delle banche “di sistema”
La settimana scorsa, Intesa Sanpaolo e Unicredit, le due maggiori banche italiane, hanno deciso di investire 230 milioni di euro per diventare azionisti della Camfin, la scatola cinese grazie alla quale Tronchetti comanda sulla Pirelli con il 4-5 per cento del capitale, mentre il restante 95 per cento ce lo mettono altri. Perché investire nel controllo di un’azienda sana quando si chiudono i rubinetti per le aziende davvero bisognose di sostegno? Semplice. Senza l’intervento delle banche, il controllo della Pirelli sarebbe finito a Vittorio Malacalza, il socio pronto a mettere in Camfin i soldi che Tronchetti non aveva. Tirare fuori i propri denari è peccato mortale per il trogloditico sistema di potere bancocentrico (denunciato già anni fa addirittura da Mario Monti): il padrone i soldi deve tenerli all’estero, se li ha, nell’azienda ce li deve mettere la banca, che così la spolperà esigendo interessi esosi.

Nel 2012, anno considerato molto soddisfacente, la Pirelli ha dato 152 milioni di dividendo agli azionisti e 141 milioni di interessi alle banche, al tasso medio del 5,79 per cento. Già l’anno scorso Tronchetti, per non perdere il controllo della Camfin, ha preferito a un aumento di capitale l’emissione di obbligazioni convertibili per 150 milioni al tasso del 5,625 per cento. In un capitalismo ermafrodita in cui tutti sono azionisti di tutti (Pirelli di Mediobanca, Mediobanca di Unicredit, Unicredit di Camfin, Camfin di Pirelli) le banche di sistema hanno liquidato a peso d’oro Malacalza e con un patto di sindacato (illegale in tutti i Paesi più civili dell’Italia) hanno fissato che anche per i prossimi 4 anni (dopo i trascorsi venti) Tronchetti comanderà con i soldi degli altri. Poi hanno scritto nei “patti parasociali” (come si definiscono gli accordi con cui “banche di sistema” e “padroni delegati” fanno la festa ai piccoli azionisti, detti anche parco buoi) che il presidente della Pirelli si sdebiterà del pensiero trovando tra quattro anni qualcuno che si ricompri la Camfin al doppio del prezzo pagato oggi dalle banche con il loro intervento “stabilizzatore”.

Quel qualcuno probabilmente pagherà le azioni Camfin con soldi prestati da Intesa e Unicredit. Il numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni ha difeso l’operazione da accuse di “presunti favoritismi”: “Abbiamo fatto un’operazione di mercato a prezzi di mercato, e con ritorni interessanti”. Un affare. Ghizzoni si è però dimenticato di spiegare che Camfin più la controllata Prelios più la Pirelli sono indebitate con le banche, in primis Unicredit e Intesa, per almeno due miliardi di euro. Quando ci sarà da discutere un prestito con Tronchetti, Ghizzoni penserà agli interessi della banca o della “partecipata” Pirelli? Nessuna logica di potere, assicura Tronchetti. Le banche, insieme al fondo privato Clessidra, “credono nel nostro progetto”. Ma se in Italia la parola mercato fosse più di un gargarismo da convegno, ci sarebbe una platea di azionisti a dare la pagella al manager Tronchetti e al suo “progetto”. Invece fa tutto da solo, con la maggioranza dei voti garantita dalle banche di sistema: si nomina, si assegna lo stipendio, se lo arrotonda, propone, dispone, si loda e si imbroda. Nei 13 anni dal 2000 al 2012 Tronchetti si è preso come stipendi e premi dalle “sue” aziende quotate 140 milioni, alla media di 10,7 milioni all’anno, 30mila euro al giorno domeniche comprese. Mentre Mediobanca, Intesa, Unicredit, Generali, Benetton, Ligresti e via elencando tutto il sinedrio degli azionisti ubiqui, annuivano “a condizioni di mercato”.

Dieci anni di insuccessi, da Telecom a Prelios, con la Pirelli immobile
Che cosa ha fatto Tronchetti per essere uno dei manager più pagati del mondo? Dal punto di vista dell’azionista di Pirelli – cioè di se stesso – ha lavorato bene. Chi dieci anni fa avesse comprato mille azioni Pirelli, al prezzo di 650 euro, oggi si troverebbe in tasca circa 1800 euro calcolando l’aumento di prezzo, i dividendi incassati e l’assegnazione delle azioni Prelios. Si tratta di “creazione di valore”? No, secondo Vittorio Malacalza, che all’ultima assemblea della Camfin ha contestato Tronchetti circa l’incremento di valore dell’investimento, “in quanto essendo di natura industriale impone di considerare l’effettiva creazione di valore al di là dei corsi di Borsa”. Borsa a parte, Pirelli nel 2003 controllava Telecom Italia, produceva pneumatici e cavi di gomma, puntava a fare soldi con gli immobili. In questi dieci anni, l’abilità di Tronchetti non ha impedito a Pirelli di vendere il controllo di Telecom rimettendoci oltre 3 miliardi di euro e di dare via per per 1,2 miliardi la produzione di cavi che, abbandonata a se stessa, ha preso il nome di Prysmian, è diventata un colosso mondiale con 8 miliardi di fatturato e vale in Borsa 3,3 miliardi.

Per tacere di Prelios (ex Pirelli Re), con le azioni a poco più di 70 centesimi mentre dieci anni fa stavano sopra i 30 euro, mentre il manager-azionista sodale di Tronchetti e artefice del disastro, Carlo Puri Negri, si è intascato 57 milioni di emolumenti, “a prezzi di mercato”, direbbe Ghizzoni. Dopo dieci anni di cura Tronchetti l’impero Pirelli si è ridotto a un produttore di nicchia di pneumatici di qualità. Il fatturato è sceso da 6,6 a 6,1 miliardi, il capitale investito da 6,4 a 4,4 miliardi (significa che l’azienda è più piccola), il patrimonio netto da 3,6 a 2,4 (significa che l’azienda è più povera). I dipendenti sono gli stessi, 36 mila (ma molto più spostati sull’estero) e le spese in ricerca e sviluppo sono calate da 204 a 179 milioni, che significa in termini reali un taglio di un terzo. Davanti a questi risultati (e trascurando la Telecom “spolpata”, come disse Franco Bernabè quando la ereditò nel 2008) c’è da chiedersi se siano questi i cervelloni in grado di insegnare ai politici, in pensose interviste, come portare il Paese fuori dalla crisi economica.

Dal Fatto Quotidiano del 12 giugno 2013

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