Quando si tratta di gettare uno sguardo pietistico sugli immigrati, gli articoli sui giornali non mancano. Finché restano vittime, finché accettano di essere gli “ultimi” e aspettare buoni buoni che qualcuno ‘doni’ loro qualche diritto – come quando si getta l’osso al cane da una macchina in corsa – suscitano sentimenti di carità popolare e istituzionale, sono simpatici: “poveretti, ce l’abbiamo un euro da dare?”, “hai visto che carino? Sta lì seduto al freddo a chiedere l’elemosina”. Appena però gli immigrati si alzano in piedi, guardano senza paura tutti negli occhi e pretendono i loro diritti, scompaiono dai giornali. E vengono guardati in cagnesco da molti: “Ma come osano? Chi si credono d’essere? Non basta che diamo loro un lavoro, ma vogliono anche avere dei diritti. Non vedono che crisi c’è?”

E’ stato questo il sentimento più diffuso durante le rivolte dei braccianti africani a Castelvolturno, Rosarno e Nardò contro criminalità organizzata e, dietro di essa, i proprietari terrieri e multinazionali dell’agribusiness e della distribuzione; durante lo sciopero dei braccianti africani a Caserta per una paga giornaliera, dignitosa, di 50 euro; durante le lotte degli operai maghrebini (e non solo) nella logistica, da Origgio a Piacenza, contro il super-sfruttamento delle “cooperative” e delle grandi imprese. 

Il loro protagonismo irrita molti, tutti coloro che sono disposti ad accettare come forme di protesta soltanto il gesto di testimonianza (pietistica), come lo stare in bilico sulla gru e all’addiaccio, ciò che sostanzialmente riproduce il messaggio caritatevole sugli “ultimi”. Le loro lotte auto-organizzate fanno storcere il naso anche ai sindacati confederali che, spesso, senza fiatare, firmano qualsiasi contratto nazionale. 

Non stupisce, pertanto, che quasi nessun giornale mainstream dia voce allo sciopero di oggi dei lavoratori della logistica – da Roma fino in Lombardia – che ha come protagonisti proprio i lavoratori immigrati, che con le loro lotte sono riusciti a piegare perfino multinazionali giganti come l’Ikea. Così come non sorprende il fatto che non si parli della manifestazione indetta per domani a Bologna dal Coordinamento Migranti per dire no alla legge Bossi-Fini che produce clandestinità, no sfruttamento e no agli arbitri amministrativi. Anzi, scommetto che qualcosa la scriveranno, ma soltanto nel caso di scontri o tafferugli con la polizia, per sottolineare quanto sono violenti questi immigrati che si ribellano e chiedono i diritti, quelli insomma che non accettano il destino degli “ultimi”. 

Eppure, la storia dell’emigrazione italiana nel mondo, compresa quella negli Stati Uniti, è indissolubilmente legata a quella del movimento operaio e alla nascita dei sindacati e dei movimenti antirazzisti. Per avere un’idea seppur sintetica di tutto ciò, è sufficiente dare uno sguardo al Dizionario biografico del movimento operaio (Andreucci F., Detti T., a cura di, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, 1975-1978). Anche allora le istituzioni e i media, dagli Stati Uniti al Brasile, oscuravano o denigravano il protagonismo degli italiani e delle loro eroiche lotte per un salario migliore, per una giornata lavorativa dignitosa, per il diritto e la libertà sindacale, contro le leggi razziste sull’immigrazione. La repressione fu la risposta fornita dalle istituzioni alle loro rivendicazioni. Il loro non piegarsi fu poi garanzia del successo per la conquista dei diritti per tutti. Perché anche quando perdevano, essi vincevano comunque, perché, come dice il protagonista del film “I lunedì al sole”, avevano ottenuto “di essere uniti”.

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