C’é una persona di cui spesso non si tiene conto quando in casa si ha un figlio disabile: suo fratello. Si pensa alla sofferenza, l’emarginazione e le difficoltà che vive ogni giorno la persona con handicap, o alla disperazione e determinazione dei suoi genitori, ma non alle difficoltà che può avere l’altro figlio, quello sano. Eppure, anche a lui, o lei, non mancano i problemi, a partire dalle emozioni, non sempre positive, che provano verso questo fratello o sorella, che suo malgrado catalizza tutte le energie e le attenzioni dei genitori. Il risultato é che molti di loro diventano o iper– responsabilizzati per non essere di peso, o dei provocatori che cercano di attirare l’attenzione.

Ecco perché l’Associazione Internazionale Ring 14 Onlus di Reggio Emilia dal 2009 organizza il progetto “Fratelli di…”, per dare una risposta a questo disagio e prevenire difficoltà future. Un progetto educativo che, come spiega Stefania Azzali, presidente dell’associazione, “vuole mettere al centro dell’attenzione adolescenti e preadolescenti, che hanno un fratello o una sorella con gravi disabilità nel modo più naturale possibile: coinvolgendoli in attività ricreative, pensate appositamente per fare gruppo tra persone che vivono le stesse difficoltà e sviluppare così una sana consapevolezza del proprio vissuto”. Si é partiti con un gruppo di una ventina di preadolescenti, di circa 11-14 anni, con fratelli affetti da vari handicap e malattie genetiche (tra cui la Ring14, provocata da alterazioni del cromosoma 14) che vivono tra Reggio Emilia, Parma e Modena, e che ora hanno 15-18 anni.

Finora l’associazione non é riuscita ad avere altri fondi per allargare il progetto e lavorare in sinergia con altre onlus. L’idea alla base é semplice: aiutare questi ragazzi facendogli vivere delle esperienze positive. “Non li abbiamo messi attorno a un tavolo con uno psicologo – continua Azzali – ma organizzato attività ludiche, come una pizza o un weekend in campeggio per creare un gruppo affiatato che iniziasse a discutere. Mano a mano abbiamo inserito dei contenuti per approfondire i problemi psicologici, insieme a psicologi ed educatori”. Stando insieme ad altri coetanei con i loro stessi problemi e riuscendo a discutere delle loro emozioni “hanno imparato a capire che é legittimo avere paura, essere arrabbiati o provare vergogna, o qualsiasi altro tipo di emozione – aggiunge Azzali – che viene così elaborata e condivisa con gli altri. Per loro é anche utile vedere come si comportano gli altri con i propri fratelli”. Spesso vivono infatti grandi difficoltà in solitudine, senza possibilità di confrontarsi in famiglia, ma anche tra gli amici che non hanno gli strumenti per comprendere angosce, rabbie e imbarazzi, che possono compromettere l’autostima.

“Sono costretti a crescere in fretta, dovendo rispondere ad aspettative altissime, tra cose non dette e disagi mai affrontati – rileva Luca Ventura, psicologo coordinatore del progetto – Loro sono quelli che non devono chiedere. Così o diventano autonomi prima degli altri, ‘perfetti’ e compiacenti, reprimendo ansia, rabbia e cercando di far fronte da sé ai problemi, o cercano di richiamare l’attenzione con comportamenti provocatori”. In molti casi si sottovaluta anche un altro aspetto fondamentale: probabilmente saranno loro a doversi prendere cura dei fratelli svantaggiati in futuro. Anche perché in Italia le opzioni per il ‘dopo di noi’ sono poche e inadeguate. “Ci sono alcune strutture che li possono accogliere – sottolinea Azzali – come i centri diurni, residenze socio-assistenziali o case protette, ma non tutti hanno posto o sono idonei, soprattutto per i disabili gravi o con autismo. In molti casi il personale non é specializzato, e nello stesso centro convivono anziani, disabili piccoli e grandi, con handicap intellettivi e motori. Una situazione che crea ansia alle famiglie, che si arrabattano come possono. Chi se lo può permettere prende una badante a casa”. Lo conferma anche Pietro Barbieri, presidente della Fish (Federazione italiana superamento handicap): “Dagli anni ’50 in Italia le famiglie hanno smesso di mettere i figli disabili in istituti e hanno cercato di tenerli a casa con loro, auto- organizzandosi in centri. E siamo ancora fermi lì sostanzialmente. Si é iniziato con i centri diurni, che non si quanti sono e sono ormai diventati più un luogo di contenzione. Ci sono grandi istituti o fondazioni, e poi si é avviata l’esperienza delle case famiglia e comunità-alloggio, ma si tratta di sperimentazioni. Non c’é un servizio uniforme in tutta Italia e le famiglie sono lasciate in balìa delle loro preoccupazioni per il futuro dei loro figli”.

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