“Mio figlio vi ammira, il suo sogno è stare con voi nel clan”. “Don Salvatore ho due figli disoccupati dovete aiutarmi: vi chiedo con umiltà e devozione una sistemazione”. “Pensate a mio figlio, vi supplico prendetelo a ‘lavorare’: è un ragazzo d’oro”. “Potrei essere vostra madre ed i miei figli dei vostri fratelli più grandi: aiutatemi. In casa non abbiamo nulla. Se solo voi volete, la nostra vita davvero cambia”. “Il ragazzo è sveglio, è fidato, non parla. Noi ci accontentiamo anche se lo fate fare solo il ‘messaggero’ vostro”.

Sono le ‘suppliche’ di madri rivolte al giovane padrino Salvatore Paduano, 21 anni, erede e capo per carisma della cosca dei Gionta di Torre Annunziata. Il giovanissimo boss, latitante da tre anni, è stato stanato e arrestato la settimana scorsa dai carabinieri. L’identikit tracciato dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli mette i brividi. Questo non è un “bamboccione di camorra”, ma uno che ha fatto una scelta precisa e agognata. Suo padre Ciro, detto A’ bucatura, finì in cella dopo cinque mesi dalla sua nascita e allora il bimbo divenne il pupillo di donna Gemma Donnarumma, lady camorra e moglie dell’ergastolano Valentino Gionta, il capo dei capi, ben raccontato nel film “Fort Apache” di Marco Risi dedicato al giornalista Giancarlo Siani. 

Salvatore Sasà Paduano è cresciuto assieme a Valentino Gionta jr a Torre Annunziata nel giro di Palazzo Fienga, al cosiddetto Quadrilatero delle carceri, storica roccaforte dei Gionta. Sasà era un predestinato, l’unico al quale i Gionta avrebbero lasciato tutto l’impero criminale nonostante non portasse il loro cognome. Sasà diventa boss a 18 anni con un’investitura arrivata direttamente dal carcere. Lui sul trono del clan avvia il nuovo corso, “rottamando” i vecchi e costruendo una nuova gerarchia criminale con nuovi affari da mettere in piedi. Rosario Cantelmo, procuratore aggiunto della Dda di Napoli dice di lui : “Un boss che definisco serio, impegnato davvero nella sua parte. Decisivo. Ossequioso di regole precise alle quali rispondere. Vita votata alla latitanza, senza colpi di testa. Niente bella vita. Fedele ad una compagna e concentrato sul clan. Era lui a gestire i nuovi battesimi degli affiliati, le madri chiedevano a lui un posto di lavoro per i propri figli disoccupati. Gli chiedevano di concedere un ruolo da pusher, da vedetta, da messaggero. Era lui che dava lavoro ai soldati”. Il mio disagio a volte tracima. La rabbia esonda. Il senso di smarrimento mi ossessiona.

Il clan Gionta è a palazzo Fienga da oltre 40 anni. Questa cosca è più forte dello Stato. Garantisce posti di lavoro, crea imprese, controlla il territorio, distribuisce favori, ti trova casa, gestisce affari, internazionalizza le attività illegali, ricicla denaro sporco. Proprio oggi la Guardia di Finanza a Torre Annunziata ha arrestato 27 persone per droga: l’operazione si chiama “Biancaneve”. Al Quadrilatero – tanto per cambiare – c’era un supermarket di polvere bianca gestito dai Gionta. C’erano dodici donne, in maggioranza incinte, così non destavano sospetti – che vendevano tutti i tipi di droga con l’omertà dei residenti. Acciuffati anche sei minori tutti figli di detenuti. A loro oltre lo stipendio era concesso un mini welfare con fitti agevolati, auto, moto e cellulare in dotazione più assistenza legale gratis estesa anche ai familiari. Di cosa parliamo? Lo Stato ha perso. Il blitz, la repressione, il carcere è una risposta ma non la risposta. Qui il problema è nel tessuto, nelle fibre, nella vita, nel dna di una società che con l’allargarsi della crisi economica diventa sempre più debole e priva di difese. La camorra ci sguazza. I clan s’ingrassano. I boss surclassati dalle richieste devono cominciare a dire no ai giovani che vogliono affiliarsi. Oppure organizzare una sorta di X Factor della malavita. Il paradosso è grave: per fare il camorrista serve la raccomandazione. L’età si è abbassata: se a 21 anni sei un padrino come minimo a 14 anni devi già aver premuto il grilletto. L’amarezza, il disgusto, lo schifo è per quelle voci di madri imploranti il boss – saltate fuori dalle intercettazioni telefoniche – disposte a tutto pur di affidare i propri figli alla camorra e alla logica della morte. Tutto si tollera però per piacere, per rispetto, per buon senso non chiamatele madri è un’offesa alle vere madri del Sud.

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