Che Beppe Grillo sia effettivamente “fascista” o meno, come gli ha detto poco amichevolmente Pierluigi Bersani, poco cambia. Il dibattito attorno all’identità sfuggente del MoVimento Cinque stelle, che per il centrodestra è una mutazione genetica della “sinistra-sinistra”  e per il centrosinistra è una pericolosa incarnazione della “destra” più estrema, è la migliore rappresentazione possibile di questi tempi politicamente confusi. Ormai è evidente: la destra e la sinistra sembrano oggi più che mai contenitori vuoti, spazi con poche idee e confuse, vecchie chincaglierie novecentesche inutili a rappresentare le sfide della contemporaneità. Tra gli effetti di questo bipolarismo all’italiana, tanto virulento quanto pasticciato, c’è stato anche quello di aver trasformato le etichette identitarie in una specie di maionese impazzita.

Le battaglie legalitarie (e spesso “manettare”) dell’ex magistrato Antonio Di Pietro sarebbero filologicamente roba di destra, così come sarebbe di destra la guerriglia black dei No-Tav, e invece sono diventate entrambe espressioni di una sinistra “antagonista”. Ma l’idea di bollare l’Italia dei valori come partito di “destra” si infrange davanti alla piattaforma economica dipietrista, che scavalca a sinistra il Pd “montiano”.  

L’ex ministro dell’Economia del governo Berlusconi, quello che avrebbe dovuto dare sostanza alla “rivoluzione liberale”, scrive libri in cui spiega di preferire Roosevelt a Reagan e mette in guardia dal rischio di un “fascismo finanziario”.

Ex socialisti ed ex radicali, oggi dirigenti del partito di Berlusconi (un ex socialista poi spacciatosi per liberale e ora leader di una destra antieuropea e populista), si battono contro i diritti civili, roba secondo loro di “sinistra”, mentre a Londra il premier conservatore David Cameron spiega che in fondo il matrimonio gay è una cosa di destra.  

Gianfranco Fini, per vent’anni leader della destra italiana, viene oggi accusato dai suoi ex colonnelli di essere un “utile idiota” della sinistra. E poco importa che l’idea di un “polo della nazione” già dal nome sembri essere più parente della destra che della sinistra, o che la rottura con il Pdl sia avvenuta su temi come l’unità nazionale e l’etica pubblica, che poco paiono avere a che fare con la tradizione di sinistra, per lo meno in Italia (e a proposito, grazie alla disastrosa esperienza berlusconiana valori storicamente di destra come la patria e i suoi simboli, la moralità pubblica e il rispetto delle leggi si sono trasformati in cavalli di battaglia della sinistra…).

Tutto questo non per dire che la politica debba essere una marmellata indistinta. Anzi. Se a essere relativi sono i nomi, non lo sono certo i contenuti. In Francia la piattaforma socialista di Hollande era diversa da quella di Sarkozy. E negli Stati Uniti il programma iperliberista del ticket repubblicano Romney-Ryan è agli antipodi rispetto alla dottrina obamiana. Il problema come al solito è nostro. Abbiamo partiti ormai “bolliti” e incapaci di rinnovarsi, è vero. Ma forse ci manca il coraggio di pensare e costruire nuovi percorsi. Anche in questo caso, forse, non c’entrano nulla la destra e la sinistra: siamo solo il solito paese, troppo pigro e troppo conservatore.

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