È azzardato sostenere che è stata una sentenza che ha soddisfatto la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Il processo “Crimine” si è chiuso con 34 assoluzioni su 126 imputati e con forti riduzioni di pena rispetto alle richieste della Procura della Repubblica. Dopo una camera di consiglio durata oltre 24 ore, il giudice per udienze preliminari Giuseppe Minutoli ha condannato boss e gregari dell’onorata società calabrese.

Tra questi anche l’anziano Domenico Oppedisano, ritenuto dalla Dda il “capo crimine” della ‘ndrangheta della provincia reggina. Un ruolo che Oppedisano avrebbe rivestito nell’annuale riunione presso il Santuario di Polsi, durante la quale gli affiliati discutono e cercano di trovare soluzioni circa i contrasti tra i vari locali. Al termine della requisitoria, nei suoi confronti i pubblici ministeri avevano chiesto 20 anni di carcere. Il gup lo ha invece condannato a 10 anni. Uno “sconto” ancora più evidente se si tiene in considerazione la pena complessiva comminata ai 126 imputati che avevano scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Il gup ha inflitto, in totale, 568 anni di carcere a fronte di una richiesta tre volte superiore avanzata dalla Procura.

Il processo “Crimine” è nato dalla maxioperazione che il 13 luglio 2010 aveva stroncato le cosche reggine e le loro proiezioni in Lombardia. Stando alla Direzione distrettuale antimafia, la ‘ndrangheta si sarebbe strutturata con un organo superiore, detto “Provincia”. Una ricostruzione che, in passato, non era mai stata accolta da una sentenza definitiva. Tuttavia tracce della “Provincia” si trovano nei fascicoli dei maxi processi “Olimpia” e “Armonia”.

A dispetto della conclusione del processo, dimezzato in termini di condanne, in una nota stampa della Procura della Repubblica di Reggio, si legge che “la sentenza del gup riconosce l’esattezza della ricostruzione della struttura e degli assetti della ‘ndrangheta, quale emersa dall’indagine Crimine condotta dalle Dda di Reggio Calabria e di Milano”. Il giudice riconosce, infatti “l’esistenza della ‘ndrangheta quale organizzazione unitaria, articolata su una struttura complessa, governata da un organo di vertice e radicata in Calabria e con estensioni fino oltre oceano. La sentenza ribadisce quanto sul punto era già stata affermato da altre importanti decisioni pronunciate dal gup di Milano il 19 novembre 2011 e da quello di Reggio Calabria il 15 giugno 2011».

Lo stesso concetto viene ribadito dal procuratore Giuseppe Pignatone che, tra pochi giorni, si trasferirà a Roma per dirigere la Procura della capitale: «È l’ulteriore conferma del lavoro condotto in questi anni dalla Procura antimafia di Reggio Calabria per delineare il fenomeno mafioso in provincia di Reggio e le sue diramazioni in Italia e all’estero». Prima di abbandonare l’aula bunker, il procuratore aggiunto Nicola Gratteri si è limitato a sottolineare che «l’impianto accusatorio comunque ha tenuto. Bisogna ora aspettare di leggere le motivazioni per capire come il gup sia arrivato alle determinazioni del conteggio della pena, delle condanne e delle assoluzioni”.

Una dichiarazione che, certamente, Gratteri non ha pronunciato con il sorriso sulle labbra, pur avendo sempre spiegato qual è la differenza tra il reale potere delle cosche e il ruolo della “Provincia” presieduta da Mico Oppedisano. Quella del gup Minutoli è stata certamente una sentenza coraggiosa che, però, non lascia soddisfatto nessuno. “Occorre distinguere la ‘ndrangheta che regna da quella che governa”. Il procuratore generale di Ancona Enzo Macrì è un profondo conoscitore della ‘ndrangheta reggina. Aveva pronunciato questa frase all’indomani dell’operazione “Crimine” provocando più un dolore di pancia.

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