C’è chi nega. E chi rinnega. E c’è anche chi mente. La guerra spesso è fatta anche di questo e la questione afghana la fa da maestro. Mentre il Pakistan nega sempre di sostenere l’insorgenza dei talebani, questi ultimi hanno smentito di avere in corso in Arabia Saudita negoziati con il governo afgano. La verità è che i tempi stringono, i giorni del ritiro previsto nel 2012 si avvicinano e gli afgani schiacciati da decenni di guerra non sanno che aspettarsi. La violenza aumenta, la corruzione è endemica, l’esercito si addestra, ma il sistema mafioso dei talebani è più funzionale di quello fragile delle istituzioni. Molti credono che quando le forze straniere se ne andranno, la situazione resterà buona nella capitale e nelle grandi città, troppo sotto gli occhi del mondo per non evolversi, mentre le campagne ripiomberanno in quel medioevo dal quale in realtà non sono mai uscite.

Stringere una tregua con i talebani significherebbe agguantare un periodo di stabilità, ma una parte della popolazione è convinta che in nome di questa pace verranno svenduti i diritti delle donne. Diritti che sono marginali, spesso solo sulla carta, spesso solo sulla bocca dei politici. In Afghanistan il 70% delle donne subisce violenza domestica, il 25% ha subito uno stupro, le case di accoglienza e le prigioni traboccano di ragazze che fuggono dai mariti. Per salvare l’onore della famiglia, si può essere mutilate, costrette a sposare il proprio stupratore, cacciate, picchiate. Le storie sono all’ordine del giorno. Terrificanti. Inaudite. Devastanti.

E poi ci sono loro. Le eccezioni. Donne che per qualche ragione ce la fanno. Donne che combattono per i loro sogni, come hanno imparato ogni giorno a farlo per la vita. Donne che non sono la differenza, ma la fanno.
Shabnan Haruzel è una di queste. 18 anni, un viso d’angelo e il corpo di un’atleta. Si muove nervosa, a scatti, sembra più un ragazzino di una gang americana che una modesta ragazzina afgana. Shabnan è una campionessa. Parteciperà alle olimpiadi di Londra. Fa il pugile, ha già vinto molti incontri e anche se ogni giorno i suoi genitori ricevono telefonate minatorie, lei non smette. “Voglio vincere, per me e il mio Paese, perché l’Afghanistan non è solo guerra”, ci ha detto in una sgangherata palestra nei sotterranei dello stadio di Kabul dove una volte le donne venivano lapidate e ai ladri tagliavano le mani. Per una volta e per un momento quando salirà sul ring di fronte agli occhi del mondo, l’Afghanistan non sarà solo guerra, sarà anche lei, la minuta Shabnan con il cuore e i pugni di una campionessa.

Ferestha Farah, 40 anni, sta due piani più in su, la prima volta che la incontrai, anni fa, aveva messo su la prima palestra per donne in onore della sorella uccisa dai talebani perché faceva karate, ora è la vicepresidentessa della commissione olimpica afgana. “Ci sono 400 donne che fanno sport qui da noi, le cose stanno cambiando, ma ci sono ancora tante resistenze, le famiglie, la società, i mariti che trovano sconveniente allenarsi”. Lontano dallo stadio sorge uno dei tanti ospedali della capitale, ci lavora Wahida Ghoti, un chirurgo donna: “Ci sono molti medici donna in Afghanistan perché insieme all’insegnamento sono le due professioni considerate ‘ accettabili’, il problema è arrivare alla professione, non poi mantenerla, quando guadagni dei soldi gli uomini fanno buon viso a cattivo gioco”.

E c’è chi gli uomini li sa anche affrontare. Shukria Barokzai vive in una casa circondata da un’alta recinzione e guardie armate che la seguono ovunque. Fa la parlamentare, capo della commissione difesa, spesso pensa che i suoi nemici più grandi sono proprio i suoi colleghi, molti dei quali Signori della Guerra, che ucciderebbero pur di non vedere una donna in parlamento. Potrebbe candidarsi alle presidenziali. “È stato molto triste, mio marito ha combinato un secondo matrimonio senza neanche dirmelo. E io l’ho lasciato”. Questo non avviene quasi mai in Afghanistan dove le donne sono prima proprietà del padre e poi del marito. “Marito? Se mi fossi sposata ora non sarei qua”, Rokia Mutamahel, capelli rossi al vento, professoressa di fisica al politecnico di Kabul: 23 anni che insegna, ma non vuole rivelare la sua età, trasuda forza ed esuberanza, non le importa se sentono quello che dice: “La soluzione è nell’istruzione. Metà di questo popolo, le donne, è seduto a casa. Siamo sempre un passo indietro. Un Paese è come un corpo, se il 50 % non funziona, il corpo è malato. Non bisogna essere professori per capirlo e neanche uomini, perché loro proprio non ci arrivano”.

Il Fatto Quotidiano, 14 Febbraio 2012

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