Il caso dell’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi non è solo una “ vicenda orrenda”, come ha detto Linda Lanzillotta. È qualcosa di più. È un segnale “storico”. Uno dei tanti segnali che i partiti – le strutture di potere che hanno “ipotecato” la democrazia italiana per circa sessant’anni – si sono rotti ormai irrimediabilmente.

Quelle burocrazie, quelle nomenklature sempre più autoreferenziali che hanno nascosto sotto una girandola di nomi, simboli e coalizioni un’invidiabile capacità di conservarsi, non sono crollate sotto i colpi di Tangentopoli, non sono franate per colpa di ladri e ladruncoli di ogni risma e colore. Non si sono sfaldati per l’orgia antipolitica del berlusconismo e nemmeno per il grillismo o il qualunquismo d’accatto. A infrangere l’ingranaggio è stata la storia, il sommovimento tettonico del territorio politico che quei partiti non hanno saputo né prevedere né capire.

Non hanno visto che il mondo stava cambiando, che le geografie e le appartenenze stavano per essere rivoluzionate, che l’idea di poter fare politica in modo chiuso in un mondo aperto era una follia. Non hanno capito che la partecipazione avrebbe cercato altre strade, che la rappresentanza avrebbe trovato altri interpreti, che la democrazia avrebbe cambiato pelle. Non hanno capito che nell’età della Rete non era più possibile far sopravvivere ideologie novecentesche infilate dentro burocrazie ottocentesche. Ecco cosa c’è dietro il caso del tesoriere Lusi. Ci sono gli avanzi di un mondo ormai “di troppo”, di un sistema che soffoca la politica e che sta finalmente per saltare.

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