Ora anche il tempo delle stragi si è fatto breve. Da ieri, malgrado i giochi con calcolatrice del ministro Alfano, anche i cavilli di un processo con 32 vittime sono appesi ai destini del premier e alle sue strategie difensive. Che strano rito obliquo che si celebra in Parlamento: il tempo delle vite di tanti, contro il tempo dell’impunità di uno solo.

Che scambio feroce, ingiusto, inaccettabile. Ora ci sono storie che bisogna rincorrere tra il passato di una catastrofe ferroviaria e l’aula di un tribunale. Ora c’è la memoria della Strage di Viareggio che va recuperata perché quelle vittime non finiscano bruciate per la seconda volta, in un rogo di amnesia giudiziaria. Ora, davvero, c’è la voce ferma di Daniela Rombi, madre di Emanuela, che dice con un suono di piombo: “Non mi interessa nulla dei guai giudiziari di Berlusconi. Lo so che non siamo potenti. So che siamo gente semplice, stipendi da mille e cinquecento euro al mese, quelli che fanno fatica ad arrivare al 27. Eppure la mia vita, quella di mio marito, quella di venti famiglie sono state spente da una vampata, in una sera di giugno, due anni fa. A noi nessuno può insegnare niente. Nessuno può permettersi di dare rassicurazioni. Ci hanno tolto 32 vite, non possono toglierci il diritto a questo processo”.

Ora bisogna riavvolgere la bobina, solo per un attimo. ll 29 aprile del 2009 Sara Orsi e Emanuela Menichetti, giovanissime e temerarie, avevano fondato una agenzia immobiliare. C’erano l’università, i sogni e mille progetti di una ragazza di 24 anni e di una di 21, in quell’impresa. Mamma Daniela che gridava, divertita e preoccupata: “Ma che vi mettete a fare!?”. E il sorriso di due ragazze: “Se non ci proviamo a vent’anni, quando?’”. C’era il tempo che correva. E anche la morte, già in viaggio sui binari: un piccolo incidente di cui nessuno si era accorto tra Prato e Baiano: finché non c’è un cadavere, in questo paese, è sempre manutenzione ordinaria. La sera del 29 giugno Emanuela esce: “Vado da Sara!”. Serata calda, sedute sul letto a giocare a carte. A divertirsi e a fantasticare: studentesse-impresarie, sogni che corrono, affacciate su una ferrovia.

La telefonata arriva dall’ospedale, a notte fonda. “Signora, c’è stato un incidente. Sua figlia le vuole parlare”. Daniela rimane di pietra, ma la voce di Sara le attenua l’angoscia. Se la ricorda un po’ agitata, ma cristallina e squillante: “Mamma, c’è stato in incidente!!”. Non hai tempo di chiedere, dove: “Non ti preoccupare – aggiunge – non mi sono fatta nulla”. L’inganno di una voce cristallina in un corpo già carbonizzato. Ora Daniela sa che quelle sono state le ultime parole di sua figlia. Anche quella telefonata è diventata troppo breve, nel ricordo, come se una raffica di frasi concitate avesse tagliato la possibilità di un congedo. I genitori di Emanuela arrivarono al centro grandi traumi alle 4 del mattino, lei era già imbottita di morfina. Il suo corpo avrebbe resistito 42 giorni, 90 per cento di ustioni sul corpo. Sopravvissuta a due operazioni. A tre “bagni”. La voce di Daniela torna di piombo, in questa giornata con l’orecchio teso ai giochi aritmetici di Alfano: “Sa cosa vuol dire bagno? E’ come essere spellata viva”. Per salvare Emanuela, e le altre sei persone rimaste nel limbo del centro ustionati le hanno provate tutte. Coltivavano la pelle, ipotizzavano trapianti. L’ultima ad andarsene è stata Elisabeth Guadalupe Silva. Nelle foto è bellissima: una madre che lavora in Italia per mantenere le figlie in Equador. Anche sei mesi sono un tempo infinito, nell’agonia di un letto di ospedale. Anche sei mesi sono un battito d’ali, quando è tua madre che se ne va. Roberta Calzoni, invece, non ha fatto in tempo a sapere nulla di sua figlia. Le è sopravvissuta, grazie a un innesto cutaneo. Ma poi è morta nello stesso reparto. Ibitissam Ayad, 21 anni, ha perso il padre, la sorellina e il fratello. Che ha fatto in tempo a salvarsi, e a scegliere di tornare indietro, per provare a salvare la bimba, di 4 anni. Che gioco feroce, l’incastro di questi destini.

Per la maggior parte delle vittime della strage, il rito di commiato è stato brevissimo: tutti deceduti sotto le macerie delle palazzine di via Ponchielli, folgorate dalle fiamme come un mazzo di carte. Il Gpl non perdona: quando i superstiti entrarono nelle case, trovarono mura mangiate fino all’intonaco. C’erano ragazze, anziani, italiani, ecuadoregni, romeni, marocchini. Vite belle e pulite, vite di periferia, sogni coltivati la sera, addormentandosi con il metronomo sferragliante dei treni sulle rotaie. Non c’erano vip, o potenti, in quelle case lungo la ferrovia. Ora al banco degli imputati ci sono otto diverse società, una legione straniera di subappalti intricata come una foresta. C’erano Le ferrovie di Moretti, certo. Ma anche la ditta polacca che aveva costruito i vagoni, la Pkp la ditta milanese che aveva revisionato il primo vagone, quella tedesca che si era occupata degli altri dodici. Le cisterne del convoglio, tra cui quella da cui è fuggito il gas che ha innescato l’incendio, appartenevano alla multinazionale americana Gatx (ma recano l’insegna Kvg, una controllata austriaca). Sulla stessa tratta, a dicembre dello stesso anno, un automobilista vide prendere fuoco lo stesso treno: in questo paese il sangue non insegna davvero nulla. Ibitissam però ha avuto un figlio. Lo ha chiamato Mohamed Hamza. Come il padre, come il fratello. Ecco perchè Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana non vuole scherzare: “Siamo andati davanti  a Montecitorio per protestare. Per dire che se vogliono evitare ogni rischio basta che introducano il nostro emendamento. Quello che esclude le stragi dalla prescrizione breve. No dovrebbe essere difficile, no?”. Daniela Rombi prende un solo respiro: “Ci hanno tolto tutto il tempo di 32 vite. A questo processo non possono togliere un solo secondo”. L’hanno fatto.

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