Bat’ka non si scompone. E non ha neppure bisogno di darsi un gran daffare. Il “padre venerato” – così Aleksandr Lukashenko ama farsi chiamare in patria, e guai a contraddirlo – sa bene che oggi la Bielorussia lo confermerà ancora una volta, la quarta, alla presidenza della Repubblica, senza neppure doversi spendere in una campagna elettorale. Ha trovato la formula perfetta: fingere la democrazia per perpetuare la dittatura. È così dal 1994. Anno fatidico: mentre lui, ex direttore di un sovkhoz, una fattoria di Stato, costruiva il suo potere personale sulle ceneri dell’Urss, in Italia si imponeva il fenomeno Berlusconi sulle ceneri della Prima Repubblica. Da allora, tra i due, è stato un crescendo di passioni, fino all’ormai celebre “il popolo ti ama” proferito dal Cavaliere un anno fa a Minsk per lo sbigottimento generale delle cancellerie occidentali.

Cosa pensi davvero di lui il popolo bielorusso, in realtà, nessuno lo sa, perché sono ben pochi a permettersi di esprimere opinioni contrarie al regime, pena il rischio di pesanti ritorsioni. Qui i servizi segreti si chiamano ancora Kgb, a differenza di quanto è accaduto a Mosca il regime non ha avuto neppure il pudore di inventarsi una nuova sigla, quantomeno per rimuovere dalla memoria collettiva decenni di nefandezze dell’era sovietica. Del resto, Lukashenko è cresciuto a quella scuola e sembra andarne ancora orgoglioso. La Bielorussia continua a essere l’unico paese europeo escluso dal Consiglio d’Europa, l’organizzazione con sede a Strasburgo che dal 1949 vigila sul rispetto dei diritti umani nel continente.

Nonostante la pressione occidentale, il regime continua a emettere condanne a morte (le ultime due esecuzioni sono di marzo). Le manifestazioni pubbliche sono vietate, i flebili tentativi di organizzare proteste pacifiche vengono stroncati dalla polizia con detenzioni arbitrarie e maltrattamenti. Ma Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, va anche più in là nella denuncia: “Sono stati limitati i diritti alla libertà di associazione ed espressione. Le misure di contrasto alla violenza contro le donne sono state inadeguate. È proseguito il controllo dello Stato sugli organi di informazione”. Già in occasione delle precedenti presidenziali, nel 2006, il voto venne inquinato da pesanti sospetti di frode. Lukashenko si impose con l’80% dei suffragi. Tutto lascia pensare che, nel clima di terrore che regna a Minsk, l’esperienza si ripeterà anche questa volta. Proprio una settimana fa la procura generale bielorussa ha deciso di riaprire – anche in seguito alle durissime proteste del presidente dell’Europarlamento Jerzy Buzek e del rappresentante dell’Osce per i media – l’inchiesta sulla misteriosa morte del giornalista Oleg Bebenin, trovato impiccato il 3 settembre nella sua casa di campagna. Bebenin, fondatore del sito web Charter97 critico con il potere, faceva parte dello staff che doveva organizzare la campagna elettorale di Andrej Sannikov, principale candidato dell’opposizione. Il sospetto è che si sia trattato di un omicidio politico.

Proprio la delicata situazione dell’informazione è uno dei principali motivi di preoccupazione della comunità internazionale. Nell’ultima classifica della libertà di stampa diffusa da Reporters sans Frontières, il paese si colloca al 151° posto al mondo su 175. E il suo presidente-padrone è uno dei volti fissi che continuano a comparire nell’infamante lista dei “predatori” della libertà d’espressione stilata ogni anno da Rsf. Lo sviluppo di Internet è visto come una pericolosa minaccia dal regime, tanto che le autorità di Minsk hanno ammesso di ispirarsi al “modello cinese” nel tentativo di lottare contro “l’anarchia” a loro dire imperante sulla Rete. La maggioranza dei media restano sotto il controllo dello Stato. E anche se i due giornali indipendenti Narodnaja Vola (La volontà del popolo) e Nasha Niva (Il nostro campo di grano) sono stati nuovamente autorizzati a usare il sistema distributivo statale, il boicottaggio al quale sono sottoposti dagli inserzionisti pubblicitari e le minacce che subiscono i loro giornalisti non lasciano molto spazio alla speranza. E allora, di fronte alla “mancanza di progressi tangibili” nel campo dei diritti umani, i ministri degli Esteri Ue hanno dovuto mettere da parte, ancora una volta, le timide misure di apertura politica nei confronti di Minsk: restano in vigore, così si è deciso un mese fa in Lussemburgo, le restrizioni di viaggio imposte ai funzionari bielorussi. Lukashenko, manco a dirlo, è benvenuto solo a Roma, unica capitale europea ad accoglierlo negli ultimi 15 anni.

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