Del resto ha delle responsabilità, questo è evidente: decine e decine di padri di famiglia dipendono da lui. Dopo gli arresti del 1998 e del 2001 che hanno portato in carcere gli imprenditori e gli uomini d’onore della vicina Bagheria che da almeno vent’anni garantivano la latitanza del Capo dei capi, Provenzano in persona ha rivoluzionato la geografia del mandamento (l’unione di più clan mafiosi coordinati da un unico responsabile NdA) ad Est di Palermo. Adesso sei diversi paesi, Villabate, Bagheria, Misilmeri, Belmonte, Ficarazzi e Prizzi stanno sotto Nicola. E lui deve versare lo stipendio ai picciotti e a tutti i famigliari dei cristiani che sono in prigione: fanno 600.000 euro al mese solo in salari di mafia. Poi ci sono le spese straordinarie. Gli investimenti per acquistare centinaia di chili di hashish o cocaina che non sempre vanno in porto: in un colpo solo Nicola ha perso trecentomila euro.

Infine ci sono le spese voluttuarie. Anche quelle, Francesco le conosce bene. In banca i conti correnti di tutti i ragazzi di Nicola li gestisce lui e vede che solo per le proprie carte di credito il capomafia versa dai 15 ai 20mila euro al mese. La verità è che per essere un boss di Cosa nostra, Nicola fa una vita da pazzi: grandi alberghi – a Milano dove va di continuo, scende al Gallia – vacanze alla Seichelles, a Miami, a Montecarlo e Saint Vincent; viaggi che chiama di «lavoro» a New York, puntate in Venezuela sempre e solo rigorosamente volando in business class. Poi c’è la moglie che avendo sposato uno come lui non si fa problemi a chiamare la sala bingo per farsi portare a casa del contante. E infine c’è Tiziana, l’altra donna, quella che a Nicola darà un figlio. Sono soldi, tanti soldi anche per lei.

Le regole di Cosa nostra impedirebbero ad un boss di comportarsi così. Questo lo sa anche Francesco. Lo ha letto sui libri e sui giornali. Gliel’hanno spiegato i suoi parenti di rispetto: c’è gente che per aver tradito la moglie si è ritrovata tre metri sotto terra. Ma Nicola se ne fotte. Pensa di essere intoccabile. O forse, ma questo lo ammette solo quando chiacchiera con Tiziana di fronte a un riga di cocaina, sente di avere poco tempo: la vita, la sua vita, gli sta sfuggendo come sabbia tra le mani e non si può far più niente per fermarla.

Fatto sta che i conti dell’Enterprise sono un disastro. Ancora una volta per tamponare la situazione Francesco dovrà smobilitare, a loro insaputa, i portafogli titoli dei clienti che lo hanno scelto come consulente. Persino quelli degli amici e dei suoi nonni. Riesce così a rastrellare più di un milione di euro2. Intanto anche Nicola è d’accordo. Appena gli andranno in porto certi suoi prossimi affari, l’ha giurato, ripianerà l’ammanco. Ma già oggi il buco supera il milione e trecentomila euro. Al Credito Siciliano per fortuna nessuno sospetta di nulla. Francesco è un uomo in vista, uno rispettato. È un politico e su quella poltrona oltretutto ci siede perché è stato raccomandato direttamente dal presidente della Regione, Totò Cuffaro3. E poi, anche se qualcosa dovesse andare storto, ci penseranno Nicola e i suoi ragazzi a convincere la clientela truffata a non sporgere denuncia. O almeno questo è ciò che Francesco spera.

Per il momento però il problema impellente è un altro. La carta d’identità del capo dei capi.

«Andate pure, a chiudere tutto ci penso io», dice agli impiegati il sindaco Carandino quando entra con Francesco Campanella negli uffici dell’anagrafe. Poi si mette in piedi sulla porta a fare il palo. Sa solo che Francesco deve fare un timbro su un documento. Di chi sia e perché non lo sa e nemmeno vuole saperlo. Francesco è l’uomo che lo ha fatto eleggere, è il contabile dei Mandalà e questo gli basta.

Campanella fruga nei cassetti, passa freneticamente da una scrivania all’altra. È tutto sudato. Si toglie la giacca e continua a cercare. Niente, niente, non trova niente. I timbri per le carte d’identità, quando arrivano le cinque del pomeriggio, vengono chiusi in cassaforte. E lui non ha la combinazione. Ma, non può mica presentarsi da Nicola a mani vuote: quello lo ammazza. Francesco sente il panico che a poco a poco si allarga partendo dalla bocca dello stomaco e annusa l’odore della propria paura. Sì, perché la paura ha un odore. Sì, perché Nicola Mandalà è un amico, ma è anche un capomafia e il suo potere, o meglio buona parte del suo potere, si fonda sul ricatto e la paura.

Calma, ci vuole calma. Intanto incolliamo la foto. Con cura. Ecco, così va bene. E i timbri? Beh, tra le carte, nascosto dietro un cumulo di carpette gialle e rosa, ce ne è uno a inchiostro. Ha un diametro più grande di quello previsto dalla legge, ma almeno è del municipio di Villabate. Un colpo e in angolo della foto si allarga una macchia scura. Forse può funzionare. Quello che adesso manca è il timbro a secco. Francesco tira fuori di tasca una moneta da venti centesimi. La preme con forza sull’immagine del Padrino. Poi prende la carta d’identità tra pollice e indice della mano destra, stende il braccio e la osserva in controluce: il risultato è uno schifo. Anche un bambino si accorgerebbe che quel documento è taroccato. (4 – segue)

INDIETRO

Chi è Francesco Campanella, il pentito
che accusa il senatore Schifani

AVANTI
Articolo Precedente

Tranquilli, a Lodi la mafia non esiste

next
Articolo Successivo

Piccola Ketty: ‘o femminiello camorrista


next