Anche se non esisteva più, anche se lui aveva appena fatto in tempo a vederla morire, per Francesco la Democrazia Cristiana era ancora una grande chioccia sotto la cui ala ci si poteva sentire al sicuro. Tra gli ex Dc siciliani nessuno gli chiedeva chi fosse realmente, ne da dove venisse. O meglio tutti sapevano, ma tutti tacevano. Il fatto che i suoi zii acquisiti, i potenti avvocati Cottone, fossero i cugini di Michele Greco, il boss che tutti i giornali chiamavano il papa di Cosa nostra, non importava. In fondo anche i Cottone erano due democristiani: uno era stato sindaco di Villabate, l’altro consigliere comunale a Palermo, dove aveva militato nella corrente del sindaco Vito Ciancimino, da poco condannato a dieci anni di carcere per mafia. E non importava nemmeno che Giuseppina, la cugina di Francesco, fosse figlia di Biagio Pitarresi, uno degli storici capi bastone della zona, ammazzato come un cane a colpi di lupara nel natale del 1981. Il sangue in certe terre di Sicilia è nella normalità delle cose. E Villabate è una di queste.

Per raggiungerla in auto Francesco si dirige verso lo svincolo della Palermo Catania, vede sfilare sulla destra i palazzoni del quartiere Brancaccio, lascia sulla sinistra Ciaculli, la contrada dove suo nonno era stato mezzadro in una grande tenuta coltivata ad agrumi confinante con quella del suo amico Michele Greco. Poi arriva in autostrada. Sente i pneumatici che mordono un asfalto sotto il quale Cosa nostra ha nascosto uno dei suoi tanti cimiteri ed è subito in paese. Nel suo paese. Tra i suoi ventimila concittadini, tra la gente che, a partire dal 1994, tante volte lo ha votato.

I rapporti con Nicola erano cominciati allora.

A Villabate, in quel primo scorcio di anni Novanta si era andati alle urne mentre era in corso una guerra di mafia. Da una parte c’era il clan dei Montalto. Dall’altra c’era la famiglia mafiosa dei Di Peri. Gli attentati e le intimidazioni erano accidenti d’ogni giorno. Per strada i morti quasi non si contavano.

Francesco si era candidato con la lista civica Insieme. Era stato eletto, ma subito si era reso conto che la sua cordata era sponsorizzata dai Montalto. Una sera, durante una cena organizzata tra gli aderenti per discutere le scelte politiche del consiglio comunale, si era ritrovato seduto al fianco di don Ciccio Montalto, il padrino in persona. Anche per questo, quando l’avvocato Nino Mandalà, il padre di Nicola, lo aveva contattato proponendogli di cambiare casacca e di sostenere invece una giunta guidata dagli uomini di Forza Italia, lui aveva risposto sì. E in premio aveva ottenuto la poltrona di presidente del consiglio comunale.

I Montalto erano come impazziti. Lo avevano minacciato. Pesantemente minacciato. Ma dalle parole non erano passati ai fatti. Non ce n’era stato il tempo. Dopo qualche settimana anche don Ciccio era stato ammazzato.

In quel momento Francesco Campanella ancora non aveva ben chiaro chi fossero Nino e Nicola Mandalà. Ci avrebbe messo qualche mese per capirlo. Sapeva solo che Nino, l’avvocato, era amico – e un tempo socio – di due pezzi grossi del neonato partito di Berlusconi come Enrico La Loggia e Renato Schifani. Lo aveva visto creare dal niente il locale club di Forza Italia (uno dei primi club fondati in Sicilia) e partecipare a riunioni su riunioni. Sapeva anche che il nuovo Sindaco di Villabate, il funzionario della società Fininvest Promoitalia, Giuseppe Navetta, era suo nipote. E che Navetta non prendeva mai iniziative prima di averne parlato con lo zio, tanto che quando in Municipio riceveva i giornalisti non si sedeva alla propria scrivania, ma la lasciava in segno di rispetto a Mandalà.

Una cosa però Francesco non la sapeva. Forse la immaginava, ma non la sapeva ancora: anche Nino Mandalà, il rispettabile avvocato con il pizzetto e il viso severo, era un mafioso. E lo era pure suo figlio Nicola, diventato uomo d’onore addirittura per volontà di Francesco Pastoia, il boss della vicina Belmonte, uno dei pochi capomafia che rispondevano direttamente a Provenzano.

Il socio

Le 14,45, la banca riapre. Francesco telefona a Carandino, divenuto primo cittadino di Villabate nel 2001, dopo due anni di commissariamento prefettizio del Comune a causa delle infiltrazioni mafiose. Gli dice che a fine giornata lo vuole vedere negli uffici dell’anagrafe. Il sindaco risponde laconicamente ok. Non fa domande: sa benissimo chi è Francesco e soprattutto cosa rappresenta.

Appoggiata la cornetta Francesco guarda la sua scrivania. In un dossier ci sono i conti dell’Enterprise, la società della famiglia Campanella che gestisce due negozi di telefonia Tim, una sala bingo, una tabacchiera nella sala partenze dell’aeroporto Falcone Borsellino e numerosi punti scommesse Snai. Un piccolo impero che a scorrere i bilanci sembra però sul punto di sfaldarsi. Gli incassi vanno bene, è vero. Ma c’è il problema rappresentato da Nicola: da quando hanno ottenuto la licenza per il bingo il boss è entrato nella Enterpraise come socio occulto al 60 per cento; ha trovato i locali per la nuova attività facendo segare tutti gli alberi al proprietario dello stabile che non aveva intenzione di farsi pagare l’affitto da un capomafia; ha fatto assumere se stesso e i suoi ragazzi che ora nei punti Snai gestiscono anche le scommesse clandestine e ha cominciato a prelevare contante dalle casse. Montagne di contante. Perché a Nicola Mandalà i soldi sembrano non bastare mai. (3 – segue)

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