L’invecchiamento della popolazione e l’immigrazione straniera sono i due fenomeni demografici che più di tutti emergono analizzando la composizione delle famiglie italiane. Il Paese si caratterizza non solo per le differenze tra Nord e Sud, ma anche per quelle tra gruppi sociali. Si va dal mercato del lavoro alle cure sanitarie. La capacità redistributiva dell’intervento pubblico è tra le più basse in Europa e nel corso della recessione è aumentata meno che altrove mostrando la difficoltà del nostro sistema di welfare. Questi alcuni degli aspetti analizzati nella 25esima edizione del Rapporto annuale della situazione del Paese dell’Istat, presentato oggi alla Camera dei Deputati. Il dossier sottolinea come la redistribuzione delle risorse sia attribuibile ai pensionati senza altra fonte di reddito che ne assicurano uno disponibile a persone con reddito nullo (ad esempio a figli e nipoti), mentre un ruolo modesto è ricoperto dai trasferimenti di sostegno al reddito quali gli assegni al nucleo familiare o i sussidi di disoccupazione. Di fatto, dopo l’aumento dell’incidenza della povertà assoluta, in Italia sale anche l’indicatore di grave deprivazione materiale (11,9% da 11,5% del 2015). Particolarmente critica la condizione dei genitori soli, soprattutto se hanno figli minorenni, e quella dei residenti nel Mezzogiorno.

I gruppi sociali – Nel rapporto, le famiglie residenti nel nostro Paese sono state suddivise in nove gruppi sociali. Questo tipo di classificazione è dovuta alla condivisione delle risorse economiche disponibili proprio all’interno delle famiglie. Alla componente economica (reddito, condizione occupazionale) sono state associate quella culturale (titolo di studio posseduto) e quella socio-demografica (cittadinanza, dimensione della famiglia, ampiezza demografica del comune di residenza). Dei nove gruppi, due possono definirsi a reddito medio: i giovani blue-collar, ossia 2,9 milioni di famiglie, l’11% di quelle residenti in Italia, per un totale di 6,2 milioni di individui e le famiglie degli operai in pensione, il gruppo più corposo, composto da 5,8 milioni di nuclei (22,7%), nel 78,7% dei casi composte da una persona o da coppie senza figli e 10,5 milioni di individui. Quattro gruppi sono, invece, a basso reddito: le famiglie (1,8 milioni) a basso reddito con stranieri, per un totale di 4,7 milioni di persone, quelle (generalmente numerose) a basso reddito di soli italiani, che sono 1,9 milioni e comprendono 8,3 milioni di individui, le famiglie tradizionali della provincia, il gruppo più esiguo con meno di un milione di nuclei e 3,6 milioni di persone e, infine, anziane sole e giovani disoccupati (sono 3,5 milioni di famiglie, composte per il 60% da persone sole e 5,4 milioni di individui). Gli ultimi tre gruppi fanno parte delle famiglie benestanti: quelle di impiegati sono 4,6 milioni per un totale di 12,2 milioni di persone, le ‘pensioni d’argento’, gruppo composto da 2,4 milioni di famiglie e 5,2 milioni di persone e la cosiddetta ‘classe dirigente’ che include 1,8 milioni di famiglie per un totale di 4,6 milioni di individui.

Persiste il dualismo territoriale del Paese: nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati, al Centro-nord gruppi sociali a medio o alto reddito, anche se le famiglie a basso reddito con stranieri, per scelte lavorative e minori legami territoriali, risultano prevalentemente residenti al Settentrione. La spesa mensile per consumo, pari in media a 2.499 euro nel 2015, va da un minimo di 1.697 euro per le famiglie a basso reddito con stranieri a un massimo di 3.810 euro mensili per la classe dirigente.

Le condizioni di vita degli italiani – L’invecchiamento della popolazione e l’immigrazione straniera sono i fenomeni demografici maggiormente evidenti nella composizione dei gruppi: tre su nove, infatti, sono caratterizzati da una elevata presenza di persone anziane. Le famiglie degli operai in pensione (64,6% di persone con 65 anni e più), anziane sole e giovani disoccupati (42,7%) e pensioni d’argento (40,1%). Al 1° gennaio 2017 la quota degli ultra sessantacinquenni raggiunge il 22%. Un dato che va aggiunto a un nuovo minimo delle nascite (474 mila) registrato nel 2016. Il numero medio di figli per donna, infatti, si attesta a 1,34 (1,95 per quelle straniere e 1,27 per le italiane). Il saldo naturale (cioè la differenza tra nati e morti) segna nel 2016 il secondo maggior calo di sempre (-134 mila), dopo quello del 2015, ma è soprattutto la dinamica demografica dei cittadini italiani a essere negativa. Perché se il saldo naturale è -189mila, quello migratorio con l’estero è a -80mila. La percezione dello stato di salute mostra un lieve miglioramento al netto degli effetti dell’invecchiamento: si dichiara in buone condizioni il 67,7% della popolazione nel 2016 rispetto al 64,8% del 2009.

Per quanto riguarda, invece, l’accesso ai servizi sanitari, la quota di persone che hanno rinunciato a una visita specialistica negli ultimi 12 mesi, perché troppo costosa, è cresciuta tra il 2008 e il 2015 da 4,0 a 6,5% della popolazione ed il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno. Tra i gruppi sociali le diseguaglianze nelle condizioni di salute sono notevoli. Nel gruppo della classe dirigente tre quarti delle persone si dichiarano in buone condizioni di salute, mentre in quello più svantaggiato di anziane sole e giovani disoccupati la quota scende al 60,5%. E se nel 2015 le persone a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 28,7%, tra coloro che vivono in famiglie con almeno un cittadino straniero la quota è quasi doppia (49,5%) rispetto a chi vive in famiglie di soli italiani (26,3%). Al 1° gennaio 2017, i cittadini stranieri residenti in Italia sono pari a poco più di 5 milioni, prevalentemente insediati al Centro-nord. La collettività rumena è di gran lunga la più numerosa (quasi il 23% degli stranieri in Italia); seguono i cittadini albanesi (9,3%) e quelli marocchini (8,7%). Nel 2016 l’incremento degli stranieri residenti risulta molto modesto, 2.500 in più rispetto al 2015, ma questo è dovuto soprattutto all’aumento delle acquisizioni di cittadinanza (178 mila nel 2015).

Il mercato del lavoro e la capacità distributiva – Per il terzo anno consecutivo scende il tasso di disoccupazione nell’Unione europea, e per il secondo, anche in Italia, ma a livello nazionale il calo è stato lieve (11,7% da 11,9% del 2015) mentre è aumentato di due decimi nelle regioni meridionali e insulari (19,6%). Nel 2016 la crescita del numero di occupati in Italia è proseguita a ritmi più sostenuti rispetto a un anno prima (293mila in più, +1,3%), raggiungendo quota 22,8 milioni, un livello ancora inferiore di 333mila unità se confrontato con quello del 2008. Eppure l’aumento del tasso di occupazione, che va avanti a un ritmo simile a quello dell’Ue, è al 57,2% nel 2016, un valore lontano dalla media europea, soprattutto per la componente femminile.

Alla fine del lungo periodo di crisi la diseguaglianza è aumentata nella maggior parte dei Paesi europei. Le difficili condizioni dell’economia hanno influito in particolare sui livelli di diseguaglianza dei redditi di mercato (lavoro e capitale). A mitigare questo effetto è stato solo l’intensificarsi dell’azione redistributiva pubblica, che in Italia però non ha accelerato. Inevitabili le conseguenze dato che, secondo i dati del 2015, il 55% del reddito disponibile delle persone è composto, in media, dai redditi da lavoro che contribuiscono a spiegare il 64% della diseguaglianza. Dall’altra parte dipende dalle pensioni erogate, che rappresentano il 22% dei redditi e contribuiscono al 20% della diseguaglianza (in forte crescita rispetto al 12% del 2008). Sono le famiglie a basso reddito con stranieri le più colpite dagli effetti della recessione, ma anche le famiglie tradizionali della provincia registrano un peggioramento delle condizioni economiche, mentre si contrae fortemente (-8%) anche la quota di persone del gruppo della classe dirigente nella fascia di reddito più alta.

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