Lungi dall’essere risolta, la crisi del sistema bancario italiano e la questione Mps rischiano di deflagrare nei prossimi mesi con conseguenze molto gravi per la nostra economia. Per stessa ammissione del governo, l’intervento dello Stato nel capitale dell’istituto senese non sarà una passeggiata e l’attuazione del cosiddetto decreto Salva-risparmio “sarà lunga e complicata” perché Bruxelles e Francoforte – come si è visto anche in passato – non sono affatto disposte a concedere deroghe rispetto alle regole molto stringenti che l’Europa si è data in materia di banche e aiuti di Stato. Che l’Italia sia ancora una volta partita con il piede sbagliato lo dimostra l’inutile polemica alimentata dal ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan nei confronti della Bce sulla questione del fabbisogno di capitale del MontePaschi, passato da 5 a 8,8 miliardi. Un conto peraltro solo provvisorio che si basa sugli stress test del luglio scorso: nei prossimi mesi, quando si chiuderà l’ispezione in corso sui crediti dell’istituto senese, quella cifra potrebbe crescere (e anche di molto) se risultasse che una quota importante di “incagli” è costituita in realtà da crediti in sofferenza rendendo necessarie nuove svalutazioni. Non solo, a complicare le cose c’è il fatto che lo Stato può intervenire a sostegno delle banche solo a determinate condizioni, tra cui il fatto che esse siano solvibili. E gli esiti dell’ispezione Bce, uniti alla fuga dei correntisti in atto da mesi, potrebbero mettere in discussione proprio la solvibilità del Monte, chiamato peraltro a elaborare a tempo record un nuovo piano industriale da sottoporre all’esame delle autorità europee. Insomma, il percorso è a ostacoli e molti Paesi europei, primo fra tutti la Germania, seguono l’operazione di salvataggio con i fucili puntati, pronti a far fuoco al minimo passo falso.

Sul mercato, intanto, è tornata a diffondersi la sfiducia sulle banche italiane alimentata anche dall’idea che i 20 miliardi stanziati dal governo con il decreto Salva-risparmio non siano in realtà sufficienti a mettere in sicurezza il sistema e che servirà molto, ma molto di più. Applicando all’intero sistema l’aggressiva valutazione delle sofferenze operata da Unicredit con il nuovo piano strategico, si arriva a un gap di capitale complessivo di circa 50 miliardi di euro. Tolti Unicredit, IntesaSanPaolo e qualche altro istituto che magari ha già fatto pulizia di bilancio, quante banche italiane hanno concretamente la capacità di coprire questo gap di capitale ricorrendo al mercato? E nel caso in cui non ci riescano, siamo sicuri che possano avvalersi dell’aiuto pubblico? E’ un problema di non poco conto, che è stato sottovalutato dal governo costretto ad approvare in fretta e furia il decreto Salva-risparmio. Si capirà qualcosa di più quando a farsi avanti saranno le due ex popolari venete (Vicenza e Veneto Banca) salvate appena prima dell’estate dal fondo Atlante e ora già bisognose di nuovi, importanti capitali per andare avanti. Ma, al di là dei casi singoli, il problema è generale e riguarda la struttura frammentata del nostro sistema creditizio e l’ossatura di quello produttivo. Per decenni si è detto che abbiamo troppe banche e troppo piccole, ma a parte dirlo si è fatto davvero poco per cambiare rotta e arrivare a un consolidamento del sistema. Le ragioni sono molteplici, ma dietro la retorica dei territori e del “piccolo è bello” c’è stata da un lato la sottovalutazione del cambiamento in atto a livello globale e, dall’altro, la ritrosia a rinunciare a delle formidabili posizioni di potere e al connesso serbatoio di voti. Ora il rischio è che la spinta arrivi tutta insieme e che la riduzione del numero di istituti si verifichi non per una lungimirante politica creditizia, ma piuttosto a suon di risoluzioni e liquidazioni coatte. Uno scenario terribile che avrebbe un impatto devastante non solo sul risparmio, ma anche e soprattutto su un tessuto produttivo che in Italia è fatto soprattutto di pmi e di micro imprese già duramente colpite dalla crisi e dal cosiddetto credit crunch.

Per salvarsi è necessario accelerare, però un governo copia-incolla – nato per di più dalla sonora bocciatura nelle urne dell’operato di quello precedente – non ha certo l’autorevolezza e la forza per portare a termine una seria riforma del credito. Anzi, avrà il suo da fare a raccogliere i cocci di ciò che resterà di quella delle banche popolari dopo il pronunciamento della Consulta. Intanto già incombe un possibile via libera al referendum per l’abrogazione del jobs act, si attende la pronuncia sull’Italicum e si discute di Mattarellum preparandosi alla nuova campagna elettorale: in queste circostanze, quanto tempo resterà per occuparsi seriamente della drammatica situazione delle nostre banche che Tesoro, Bankitalia ed Abi si ostinano a definire “sane”?

Non c’è solo il caso Mps, quello delle venete, di Carige, delle quattro “good bank” che forse a gennaio, o forse ancora dopo, verranno vendute. E’ un problema strutturale che rischia di aggravarsi al primo cenno di rallentamento dell’economia facendo emergere nuove situazioni di crisi. Un bubbone del genere non si può però incidere pensando solo alla rete di sicurezza per le banche. Da tempo tutta l’attenzione del mercato e dell’opinione pubblica è concentrata sull’enorme mole – 200 miliardi circa – di non performing loans in capo alle banche italiane. E’ una cifra enorme che rappresenta da sola un quarto dell’intero ammontare delle sofferenze di tutto il sistema bancario europeo. Sappiamo anche che una parte considerevole di queste sofferenze sono state generate da un numero ridotto di grandi debitori, spesso amici degli amici con importanti coperture politiche. Non a caso, e giustamente, si chiede che vengano resi pubblici gli elenchi dei debitori di Mps, tanto più ora che la banca verrà (forse) nazionalizzata. Il timore però è che le sofferenze prodotte da quei pochi grandi debitori siano di difficile recupero, mentre le necessità di nuovo capitale degli istituti finiscano per ridurre ulteriormente i crediti a favore delle imprese produttive, soffocandole. E con loro, quello che resta della nostra economia.

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