L’articolo 18 “non era un problema”, poi l’ha abolito per il Jobs Act. “Aboliamo le province”, che risorgono come enti di secondo livello con tutti i costi annessi. “Primarie al posto delle preferenze”, non ne ha più parlato. Reintrodurre l’immunità era “un errore clamoroso, una barzelletta”: poi arrivò la riforma del Senato che la estende ai sindaci-consiglieri, ma nessuno ride più. L’antologia delle promesse disattese è solo all’inizio ma mai come oggi, a mille giorni dal suo esordio, l’era di Matteo Renzi sembra giunta al momento della verità. Il referendum è alle porte, con sondaggi poco promettenti, e ci sono dati che certificano l’erosione – in poco meno di tre anni – di un immenso patrimonio di fiducia: alla vigilia delle Europee del 2014 i sondaggi tributavano al leader-rottamatore venuto da Rignano un gradimento del 49%, oggi i più clementi ballano intorno al 30. Dopo mille giorni il vento del consenso non soffia per Renzi ma contro e potrebbe anche spostarlo di peso da Palazzo Chigi tra soli 16 giorni, quando gli italiani saranno chiamati a votare l’armageddon al quale egli stesso ha appeso il proprio destino politico, salvo rimangiarsi l’impegno a “non galleggiare con governicchi”, in caso di sconfitta il 4 dicembre. Opzione che segnerebbe un epilogo uguale alla storia, a partire dal suo inizio.

L’azzardo, l’eccesso di promesse irrealizzabili è il tratto distintivo dei mille giorni. Un impulso irrefrenabile che è personale, certo, ma è diventato anche il metodo per imporre il proprio ambizioso progetto politico, sprovvisto di mandato popolare, a una compagine inventata che ha numeri insufficienti per portare a termine grandi riforme senza scendere a compromessi. E proprio questa “palude”, alimentata dai voti decisivi di indagati e impresentabili, ha certamente influito sull’azione del governo e sul gradimento personale del premier. Lo si è visto subito, con il discorso del 24 febbraio 2014 in Senato dal quale ottiene la fiducia.

E’ il primo documento programmatico dell’era Renzi, cento giorni dopo saranno slide e conferenze stampa come il “programma dei mille giorni” lanciato ad agosto 2014. Verteva su pochi punti (riforme, Europa, conti pubblici, scuola e giustizia) uniti dalla promessa di un “cambiamento radicale, immediato e puntale per l’Italia”. Oggi Renzi farà il suo sui mille giorni e cercherà di dimostrare il contrario, che è un leader del fare, non del raccontare. E che il 4 dicembre, visto che il referendum è su di lui, è tempo di supplementari, senza spogliatoi o panchine. Seguiranno, probabilmente, nuovi annunci e poca autocritica. I margini ci sono perché anche sugli impegni più solenni Renzi riesce, con baldanza, in formidabili inversioni a “U” , con un occhio attento alle convenienze del momento. Qualche esempio, tratto dal discorso del febbraio 2014, quello che gli valse l’incarico di governo.

L’elenco delle promesse disattese potrebbe riempire un libro di oltre mille pagine. Il punto, alla fine, è uno solo: Renzi si è presentato come un elemento di rottura e di cambiamento, il rottamatore al comando che avrebbe travolto la “palude dell’immobilismo” e riformato il Paese. Poco dopo aver compiuto i mille giorni il suo governo rischia invece di cadere. Non tanto o solo perché gli italiani potranno, se vorranno,  annegare nell’urna “la madre di tutte le riforme”, quella che dovrebbe sbloccare tutti gli ingranaggi che trattengono il potenziale dell’Italia. Ma perché avranno deciso se è un uomo del dire anziché del fare.

La posta in gioco l’ha messa lui, con una non comune presunzione di far coincidere il proprio destino con il bene comune. Senza dubbi, senza concessioni ai “gufi” che nella retorica renziana, che punta a catalogare e dividere, sono poi l’altra Italia, quella che rema contro le sfide del leader-vate del cambiamento. Sindrome dell’uomo solo al comando, si è detto. Unica concessione? Per l’amico Oscar Farinetti: ha ragione, c’è un problema di “simpatia” che lo allontana dalla gente. Ha ammesso, infine, di essere “a volte cattivo, arrogante e talvolta impulsivo”. Ma forse anche questo è un finto annuncio dei mille giorni. A Firenze, dopo 5 anni, lo chiamavano “il bomba”.

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