“Il rischio di un incidente nell’Adriatico, per quanto possibile, è assai remoto”, sostiene il premier Matteo Renzi quando definisce il referendum sulle trivelle del 17 aprile “una bufala”. Eppure nella storia nazionale della coltivazione di idrocarburi c’è almeno un precedente che dovrebbe indurre alla moderazione chi va in giro sbandierando la sicurezza degli impianti offshore. E’ la storia del Paguro, la piattaforma Agip installata al largo di Ravenna che il 29 settembre del 1965 si inabissò in mare avvolta da una nube di fuoco dopo essere stata consumata per 24 ore da fiamme alte decine di metri.

La tragedia portò alla morte di tre tecnici: Pietro Peri, Arturo Biagini e Bernardo Gervasoni e alla cifra record di tre miliardi e settecento milioni di lire pagata come risarcimento da Eni.

Ecco come le cronache dei tempi descrivevano la tragedia: “Una lingua di fuoco sul filo dell’orizzonte, una macchia rossa che taglia in due il grigio uniforme del cielo e del mare”. Il 30 settembre 1965 Aristide Selmi racconta ai lettori del Corriere dell’Informazione la scena che si trova davanti agli occhi: “Laddove l’isola galleggiante aveva piantato la sua base di ricerca, ora fiammate alte 40 metri sprizzano dall’acqua. Nessuno può avvicinarsi. Il calore è infernale. Si calcola che ogni minuto brucino cinquemila metri cubi di gas”.

Il mare davanti a punta Marina continuerà a bruciare per i successivi tre mesi fino a quando l’Agip riuscirà a cementare il pozzo che era saltato in aria. Il motivo del disastro? Un buco in fondo al mare di troppo frutto di un misto di imperizia e sfortuna.

Nel 1965 la piattaforma Paguro, varata due anni prima, comincia le trivellazioni del pozzo Porto Corsini 7 alla ricerca di un giacimento di metano a circa 2900 metri di profondità. Peccato che nel suo tragitto verso le viscere della terra la trivella incontra un’altra riserva (sconosciuta a chi aveva fatto le mappe geologiche) al cui interno la pressione del gas è altissima.

L’esplosione è incontrollabile e provoca un cratere profondo 33 metri. Nonostante le misure di sicurezza, le pareti del pozzo cedono quasi subito provocando un’eruzione che dal fondo del mare travolge la piattaforma petrolifera. Sono le dieci di sera. Ventiquattro ore dopo le lamiere del Paguro sciolte dalle fiamme collasseranno provocando l’affondamento della struttura. “Dalle acque, ora calme, emerge solo la torre del Paguro che serviva come pista di atterraggio degli elicotteri”, scrive ancora il Corriere dell’Informazione.

I danni ambientali furono limitati perché, a differenza del disastro del 2010 nel golfo del Messico, sotto terra c’era gas e non petrolio e perché i tecnici dell’Agip riuscirono a cementare la faglia scavando un pozzo parallelo.

Cinquant’anni dopo nessuno ricorda la tragedia del Paguro. Tranne i sommozzatori. Sì, perché il relitto è diventato un sito di immersione molto affascinante: attorno all’acciaio deformato è tornata la vita e le lamiere si sono trasformate in un reef artificiale popolato da una moltitudine di pesci e specie sottomarine. Nel 1995 la zona è stata dichiarata, la prima in Italia, sito di importanza comunitaria marina. Un paradiso di biodiversità, meta dei sub e monumento al ricordo sommerso di una tragedia.

Articolo Precedente

Laudato si’, le verità dell’enciclica di Papa Francesco confermate nei dati – I

next
Articolo Successivo

Trivelle & co.: garantire i posti di lavoro o salvaguardare l’ambiente?

next