Washington preme sull’acceleratore sulla questione libica. E tira Roma per la giacchetta. “Paesi come l’Italia hanno esperienza in quella parte del mondo. E noi attingeremmo alle loro risorse, le loro capacità, per portare avanti i nostri obiettivi in quella regione”, ha detto giovedì sera il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest rispondendo a domande sui possibili passi in Libia nell’ambito della lotta all’Isis. “Non ci sono al momento annunci”, ha precisato Earnest, aggiungendo tuttavia che il presidente è in consultazioni continue con la sua squadra per la sicurezza circa la lotta allo Stato Islamico, in Iraq e Siria, ma anche sui possibili “passi che possono essere fatti in altri Paesi come la Libia”. Poco dopo Barack Obama ha affrontato la questione della Libia incontrando alla Casa Bianca i suoi consiglieri sulla sicurezza nazionale per discutere degli sforzi per contrastare l’avanzata dei jihadisti.

Se il 26 gennaio in un editoriale del New York Times si leggeva che gli Usa sono “pronti a intervenire con Italia, Regno Unito e Francia”, in giornata è stato il Dipartimeto della Difesa a prefigurare scenari bellici sull’altra sponda del Mediterraneo: gli Stati Uniti studiano sia “opzioni militari” che “una serie di altre opzioni”, per far fronte alla “seria minaccia” rappresentata dall’Isis nel Paese nordafricano, ha spiegato il portavoce del Pentagono Peter Cook in un briefing con i giornalisti. “Vogliamo essere pronti – ha detto a pochi giorni dalla Riunione ministeriale della Coalizione Globale anti-Daesh che si terrà a Roma il 2 febbraio – nel caso in cui l’Is in Libia diventi una minaccia più seria di quanto già sia ora”. Da parte sua il capo del Pentagono, Aston Carter, ha detto in conferenza stampa che l’Isis sta allestendo in Libia centri di addestramento in cui accoglie combattenti stranieri come ha fatto in Iraq e Siria.

​Analisti ed esperti militari concordano: in Libia si continuano a giocare due partite diverse e contrapposte. Da una parte Italia e Nazioni Unite che puntano alla formazione del governo di unità nazionale – tutt’altro che scontata – e a una missione di caschi blu, a guida italiana, volta a mettere in sicurezza Tripoli e ad addestrare le nuove forze armate libiche. Dall’altra Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti che – a differenza dell’Italia – hanno già dispiegato forze speciali sul terreno e preparano raid aerei anti-Isis insieme al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte del governo di Tobruk ostile alla nascita dell’esecutivo unitario.

Secondo Germano Dottori, docente di studi strategici all’Università Luiss di Roma, “mentre l’Italia sta basando la propria pianificazione sullo scenario migliore, quello in cui ha successo il tentativo di dar vita ad un governo unitario a Tripoli, preparandosi a contribuire alla sua protezione sotto le insegne dell’Onu, Francia e Gran Bretagna sembrano intente ad allestire un’operazione diversa, offensiva, contro le forze neo-gheddafiane del Daesh a Sirte. Londra e Parigi impiegherebbero aerei e commandos. Sembra però difficile che possano riuscire senza l’apporto di forze locali e un supporto da parte italiana. Forse lo avranno, perché la nostra paura di restar fuori è più forte del nostro interesse a vederli fallire”.

Si spiegano in quest’ottica le parole di Roberta Pinotti: “Non possiamo immaginarci di far passare la primavera con una situazione libica ancora in stallo – ha detto il ministro della Difesa al Corriere della Sera – nell’ultimo mese abbiamo lavorato più assiduamente con americani, inglesi e francesi. Non parlerei di accelerazioni, tanto meno unilaterali. Ma c’è un lavoro più concreto di raccolta di informazioni e stesura di piani possibili di intervento sulla base dei rischi prevedibili”.

Concorda con Dottori Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa: “Stabilizzazione della Libia e guerra all’Isis sono due cose distinte. Italia e Nazioni Unite puntano al primo obiettivo come precondizione perché siano i libici a combattere le milizie anti governative, di cui l’Isis costituisce solo una parte, fornendo addestramento e al limite supporto aereo. Washington, Londra e Parigi puntano invece ad agire subito direttamente, e se così fosse l’Italia giocoforza si unirebbe all’azione”.

“Più si ritarda la nascita del governo di Fayez Al Serraj – spiga Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it – più è probabile che gli alleati passino all’azione insieme alle forze di Tobruk, facendo così saltare definitivamente ogni possibilità di accordo nazionale e di missione Onu. A quel punto si ripeterebbe lo scenario del 2011, con l’Italia messa all’angolo e costretta obtorto collo ad accodarsi a un intervento contrario ai nostri interessi nazionali, magari limitandosi a fornire agli alleati le nostre basi aeree siciliane e supporto logistico con ricognizioni e rifornimenti in volo”.

Interessi nazionali energetici – in particolare il terminal petrolifero Eni di Mellitah – che l’Italia è pronta a proteggere, solo in caso di seria minaccia, con gli assetti militari già schierati in ambito dell’operazione ‘Mare Sicuro’: gli incursori della Marina imbarcati sulle navi militari che incrociano davanti alla Libia e i quattro cacciabombardieri Amx recentemente rischiarati a Trapani. Per il momento, come ribadito a IlFattoQuotidiano.it da fonti dello Stato Maggiore della Difesa, non ci sono militari italiani sul terreno. ​

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