L’accordo tra Roma e Bruxelles per lo smaltimento dei crediti deteriorati del sistema bancario italiano, che ammontano a 200 miliardi di euro considerando le sole sofferenze lorde, cerca di salvare capra e cavoli. Ma di fatto serve a poco e la delusione con cui è stato accolto in Borsa, dove i titoli bancari nei giorni immediatamente successivi all’annuncio sono colati a picco, lo dimostra. Il punto critico è l’aiuto pubblico che lo Stato può fornire alle banche. Che non è vietato in assoluto dalle norme europee, ma fa scattare una serie di procedure previste da Bruxelles, tra cui imposizioni in materia di politiche economiche. Nel 2012 la Spagna ha scelto questa strada accettando l’ingerenza di Bruxelles e l’imposizione di alcune misure di austerity.

L’Italia è stata attenta a evitare questo scenario, ma il rovescio della medaglia è che si è dotata di un meccanismo molto meno efficace. La bad bank all’italiana, per prima cosa, non è una bad bank ma un insieme di soggetti finanziari chiamati società veicolo e predisposti caso per caso. Ipotizziamo che la Banca X voglia smaltire i suoi crediti deteriorati. Per farlo crea una società ad hoc che si finanzia emettendo obbligazioni e vendendole sul mercato. Con i soldi che raccoglie, la nuova società acquista i crediti che la banca non riesce più a recuperare. Li compra a un prezzo di mercato, che al momento è intorno al 20% del valore iniziale del prestito. Per intenderci compro per 20 euro un prestito che ne valeva originariamente 100 e che la banca tiene oggi a bilancio mediamente con un valore intorno a 50. Se poi riesco a recuperare, diciamo, 30-40 euro dal debitore, ho fatto un affare, altrimenti ho perso dei soldi.

La società emette le obbligazioni per finanziarsi. In genere sono obbligazioni di tre tipi: le più sicure o “senior” con priorità nei rimborsi, le più rischiose o “junior”, sono invece le prime a subire perdite e poi c’è una via di mezzo, le “mezzanine”. Queste obbligazioni vengono via via rimborsate con il ricavato della riscossione dei crediti. E se dalla riscossione non arrivassero risorse sufficienti? A questo punto entra in gioco lo Stato che, su richiesta, può fornire un’assicurazione sulle sole obbligazioni senior. Una garanzia aggiuntiva che deve essere fornita a prezzi di mercato e quindi calcolata in base al valore di alcuni strumenti finanziari che svolgono una funzione simile ossia i Credit default swap. Se i proventi della riscossione non bastano, a farsi carico della differenza sarà quindi lo Stato. Il vantaggio per la banca che compra la garanzia è che in questo modo può pagare interessi ancora più bassi sulle sue obbligazioni senior rese ancora più sicure dalla garanzia statale.

Difficile dire a chi convenga questa soluzione e a chi no. Proprio perché si tratta di strutture create caso per caso, è probabile che per le banche con i crediti meglio garantiti da collaterali (come un immobile in caso di mutuo) e quindi rivendibili a prezzi più alti, qualche vantaggio ci possa essere. Resta il fatto che quando una banca vende i suoi crediti, è costretta a scrivere a bilancio quanto effettivamente incassa e non più a mettere una cifra che rispecchia il valore ipotetico di quel credito, quasi sempre sovrastimato. In altri termini dovrebbe portare a bilancio delle perdite. Secondo alcune stime di Barclays, le principali banche italiane potrebbero dover accantonare dai 6 ai 28 miliardi di euro in svalutazioni delle sofferenze per poter accedere al meccanismo di garanzie statali. Alcune simulazioni indicano che la garanzia statale può valere intorno 5 per cento. Insomma, un prestito che vale in origine 100, messo a bilancio a 50, venduto a 20 con un bonus aggiuntivo di 5 grazie ai bassi interessi pagati dalla società veicolo per finanziarsi. Cambia poco tanto che circolano già le prime cifre sugli aumenti di capitale che dovrebbero effettuare banche come Unicredit, Mps o Banco Popolare, qualora dovessero optare per questa soluzione. Qualcuno spera che a comprarsi le obbligazioni sia anche la Banca centrale europea che potrebbe includerle nel suo programma di quantitative easing (acquisto di titoli per immettere liquidità nel mercato). Per ora da Francoforte nessuna apertura. Anzi, i segnali che arrivano sono di grande incertezza.

Nel 2012 la Spagna seguì una strada completamente diversa. Per salvare il suo sistema bancario dal crack, Madrid decise di chiedere aiuto all’Unione europea. Nacque così la bad bank pubblica “Frob” (fondo di ristrutturazione bancaria) con una dotazione di 41 miliardi anticipati dall’Europa (e da restituire) attraverso il fondo ESM creato nel 2010 per fronteggiare le situazioni di crisi finanziaria. Si aggiungono poi 20 miliardi di euro stanziati direttamente dal governo spagnolo. Il fatto che entrino in gioco capitali ESM costringe però il Paese a sottoporsi ad una serie di misure di austerità imposte dalla commissione Europea e dalla Banca centrale. La pulizia che il Frob riesce a fare nei bilanci delle banche non è indolore, i crediti vengono acquisiti con uno sconto che va dal 45 al 61% del loro valore nominale. Azionisti ed obbligazionisti degli istituti coinvolti (tra cui Bankia e Banco de Valencia) portano a casa perdite massicce per un totale di 8 miliardi di euro. Attraverso l’arbitrato che decide i risarcimenti per i casi fraudolenti vengono recuperati circa 4 miliardi. E’ il più o meno lo schema che il governo italiano ha adottato nel caso di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFe per cui si apre ora la partita dei risarcimenti. La bad bank spagnola opera con un orizzonte temporale di 15 anni, questo il tempo che ha a disposizione per recuperare i crediti che ha acquistato. Sinora i risultati finanziari non sono stati entusiasmanti. Il 2014 si è chiuso con una perdita di esercizio di 861 milioni, mentre il rosso del 2013 era addirittura di 2,7 miliardi di euro.

In tempi recenti la prima a muoversi era stata l’Irlanda il cui sistema bancario fu colpito violentemente dalla crisi finanziaria del 2008, anche in questo caso a causa di massicci investimenti nel settore immobiliare, dove le quotazioni erano prima esplose per poi sgonfiarsi rapidamente. Ancora nel 2014 i crediti in sofferenza costituivano in Irlanda il 32% del totale dei prestiti e avevano un valore complessivo pari 40% del Pil del paese. Tra le misure messe in campo da Dublino per salvare il sistema bancario caricando i costi su bilanci pubblici e contribuenti, ci fu anche la creazione di una bad bank pubblica chiamata National Asset Management Agency (NAMA) in cui far confluire crediti dubbi delle sei principali banche del Paese per un valore complessivo di quasi 90 miliardi di euro. I fondi sarebbero arrivati attraverso l’emissione di titoli di Stato, aumentando quindi il debito pubblico del paese. NAMA nacque come soggetto pubblico. Nel 2009 però Eurostat specificò che i conti di bad bank con partecipazioni pubbliche superiori al 51% avrebbero dovuto essere completamente integrati nei conti statali. Ossia eventuali perdite sarebbero state messe senza se e senza ma sulle spalle della collettività. A quel punto l’Irlanda decise di modificare il meccanismo con cui operava Nama creando una società separata per acquistare i crediti dubbi in cui le banche private avevano una partecipazione del 51 per cento. Il soggetto pubblico-privato inizio ad acquisite crediti con uno sconto del 58 per cento. Ossia un credito che valeva 100 euro veniva pagato 42 euro. Sinora Nama ha recuperato circa 24 miliardi di euro su un portafoglio di crediti malati pagato circa 37 miliardi.

Altre bad bank sono state utilizzate in diversi stati europei, ma senza che si trattasse di soluzioni di sistema. Piuttosto per gestire la situazione di singoli istituti e in questi casi la mano pubblica ha avuto quasi sempre un ruolo abbastanza marginale. In Portogallo nell’agosto del 2014 il Banco Espirito Santo è stato suddiviso in good e bad bank, con un sostegno dello Stato nella ricapitalizzazione dalla banca “sana”. La proprietà della bad bank non è però pubblica ma è riconducibile ai soggetti colpiti dal crack ossia azionisti ed obbligazionisti. In Austria è stata recentemente creata la Heta Asset Resolution a controllo pubblico, ma con soci privati per gestire la crisi di Hypo Alpe Adria. Lo scorso marzo è emerso che HETA presentava perdite per 7,6 miliardi che il governo ha però deciso di scaricare in gran parte sugli azionisti privati della bad bank tra cui PIMCO, Deutsche bank e UBS.

Articolo Precedente

Giuseppe Sala, nuova bugia. Aveva detto: “Nessun altro fornitore di Expo ha lavorato per me”. Ma non è vero

next
Articolo Successivo

Anas, in Sardegna l’opera più lenta del mondo. Corte conti: “Carente cura dell’interesse pubblico”

next