lehman_675La disputa tra economisti keynesiani e non keynesiani non è mai stata (credo) così forte come in questi anni che hanno fatto seguito alla “Grande Recessione” cominciata nel 2007 con il crollo della “bolla immobiliare” e sfociata nel crollo generale di Wall Street nel settembre 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, una delle più importanti banche d’affari del mondo.

Sulle cause della crisi, la “diagnosi”, gli economisti sono abbastanza concordi nel riconoscere che la causa è stata la “bolla immobiliare” americana (troppo generosa concessione dei mutui praticamente a chiunque) che, sgonfiandosi rapidamente (nel 2007), ha contagiato (nel 2008) tutto il mercato finanziario, costretto quindi ad una fortissima “correzione” che ha portato tutto il sistema in recessione. Era dunque necessario avviare subito misure finanziarie di aggiustamento e sostegno all’economia, ad evitare di ripetere gli stessi errori fatti a seguito della terribile crisi del 1919 quando, ai primi segnali di “ripresa” dell’economia, sono state avviate troppo in fretta politiche di austerity che, nell’intento di impostare corrette misure di controllo della spesa pubblica, hanno invece avviato una spirale depressiva su tutta l’economia americana durata circa vent’anni e superata solo grazie agli immensi sacrifici e alla gigantesca mole di spese straordinarie generata dall’entrata in guerra nel secondo conflitto mondiale.

E’ perciò sulla “prognosi”, cioè sulle corrette azioni di intervento sull’economia della propria nazione (o federazione di nazioni), che verte la disputa tra economisti. I keynesiani sostengono che l’esperienza degli anni 30 americani è sufficiente a provare che l’avvio di politiche di austerity durante periodi di recessione non solo non aiuta a uscire dalla crisi, ma l’aggrava, con il rischio di farla diventare lunga depressione. Gli altri sostengono invece che l’unico modo di risolvere veramente i problemi delle “bolle” generate dagli eccessi di spesa, è quello di “tirare i freni” dell’economia (detto in parole povere), così da riequilibrare il sistema. E’ vero che questa “frenata” produce nel sistema economico interno dolorose conseguenze sulla popolazione, sulle imprese e nel mercato del lavoro, ma nel giro di qualche annoi si recupera l’equilibrio economico e il recupero di un sistema virtuoso, non viziato dall’eccessivo indebitamento.

Quale delle due correnti di pensiero economico ha ragione dunque?

Provvede il prof. Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, nel suo recentissimo articolo “keynesianism explained” a darci una risposta convincente (traduco quasi letteralmente dal suo articolo):

1) Le economie producono talvolta molto meno di quello che potrebbero, e impiegano meno persone di quelle che potrebbero, solo perché non c’e abbastanza spesa. Questi episodi accadono per una varieta’ di ragioni, la questione e’ come rispondere.

2) Ci sono normalmente forze che tendono a spingere l’economia verso un ritorno al pieno impiego, ma esse si muovono lentamente. Usare una politica economica blanda contro una economia depressa significa accettare un lungo, non necessario, periodo di sofferenze.

3) E’ spesso possibile accorciare drasticamente tale periodo e ridurre efficacemente perdite sia finanziarie che umane “stampando moneta”, usando cioè il potere delle banche centrali nella creazione di moneta per spingere al ribasso i tassi.

4) Talvolta, tuttavia, le politiche monetarie perdono la loro efficacia, specialmente quando i tassi si avvicinano allo zero. In questi casi un incremento temporaneo delle spese (e del deficit) puo’ produrre un’ efficace spinta positiva mentre, al contrario, l’austerità in una economia già depressa produce gravi perdite.

In sostanza quindi, dice Krugman, mentre con una politica di austerity si può raggiungere il risanamento, ma solo in tempi lunghi e attraverso pesanti sofferenze, con una adeguata politica di provvisorio incremento delle spese fatta all’inizio della crisi si può raggiungere lo stesso risultato in minor tempo e con minori sofferenze.

Il pericolo di una crescita incontrollata dell’inflazione è sostanzialmente impossibile (in questa fase di recessione e di tassi quasi a zero), dato che c’è tutto il tempo e lo spazio tecnico necessario per rialzare i tassi e raffreddare tempestivamente gli eventuali eccessi.

Krugman però, in questo articolo tutto teso a dimostrare i benefici delle politiche keynesiane, ha tralasciato di citare un pericolo gravissimo e concreto per chi sceglie l’altra strada: il tempo. Se da un lato è vero che, pur con tempi e sofferenze maggiori, si potrebbe raggiungere il medesimo risultato delle politiche keynesiane anche con quelle di austerity, il tempo necessario per arrivarci, in un periodo di rapide trasformazioni come quello che stiamo attraversando, potrebbe non esserci.

Perdere il treno adesso potrebbe voler dire non trovarne più per qualche secolo a venire.

Articolo Precedente

Elezioni Grecia, sondaggi: per la prima volta Nea Dimokratia supera Syriza

next
Articolo Successivo

Parlamento Ue: Farage? No, grazie. Gli eurodeputati M5S preferiscono i Verdi

next