“Rinuncio, ma questo Paese mi toglie anche il fondamentale diritto al lavoro”. Per la seconda volta Giovanni Scattone torna a insegnare. E per la seconda volta, a vent’anni dall’omicidio di Marta Russo, deve lasciare la cattedra a furor di popolo. Perché chi ha ucciso una giovane studentessa, ancorché in modo colposo, non può dar lezioni agli studenti, tantomeno di psicologia o filosofia del Diritto. Oppure no?

E’ breve il passo che dal fondo della cronaca più nera conduce al tema “etico” dei pari diritti per chi ha scontato la sua pena. Basta una notizia, un titolo di giornale. A volte ancor prima della condanna: Martina Levato, condannata a 14 anni per un’aggressione con l’acido, può vedere il suo bambino? Negarle questo diritto prima che una sentenza definisca i contorni della sua pericolosità sociale, è un ingiusto anticipo di pena ? I casi controversi e i dubbi sono all’ordine del giorno.

Dopo 22 anni Luigi Chiatti è uscito dal carcere di Prato per entrare in una struttura psichiatrica protetta. E tanto è bastato perché la gente di Capoterra, dove a sede la clinica, si ribelli all’uscita del “mostro di Foligno” che tale resta, anche se i due ergastoli inflitti in primo grado sono stati poi commutati in 30 anni di reclusione alla scoperta delle violenze subite da un prete in orfanotrofio. Da qui le domande: l’assassino del 1993 sarà sempre e comunque “il mostro” o ha diritto anche lui alla sua riabilitazione? Adriano Sofri: poteva far parte della commissione carceri un condannato per l’omicidio di un poliziotto? E i preti pedofili possono stare in Chiesa? Il camionista che ubriaco travolge una famiglia, può tornare al volante? E gli infanticidi ai giardinetti? Come funziona il nostro sistema? Deve cambiare e se sì, come?

“Dal punto di vista giuridico non c’è nulla di anomalo, di strano o di errato”, risponde Marcello Pavarin, presidente di Tribunale di sorveglianza (Venezia), l’organo di giustizia deputato a stabilire se (e quando) la pena detentitiva principale estingue anche quella accessoria. “In casi come questi bisogna usare la legge e il buon senso. E a volte tocca anche sfidare le reazioni presumibili della pubblica opinione, perfino quelle dei parenti delle vittime”. Ma come funziona (o non funziona) il “sistema”?

“In Italia, come in Europa, è fondato sul principio per cui la pena deve essere riabilitativa, cioè finalizzata al pieno reinserimento della persona nella vita sociale. Non a caso esclude le pene perpetue, anche per quelle accessorie che comportano limitazioni al reinserimento”, dice il giudice ricordando che perfino l’ergastolo, che è la pena massima, è stato giudicato legittimo dalla Corte Costituzionale solo nella misura in cui si può trasformare in liberazione condizionale dopo 26 anni. E siccome il principio è che “nessuna pena può durare per sempre” l’effetto è di trovarsi di fronte a casi-limite come questi, “salvo che la legge cambi il diritto positivo in questo senso”. E qui la cosa si fa interessante.

Andare attorno a quel principio, infatti, è un esercizio rischioso. Si è tentato, ad esempio, con il cosiddetto “ergastolo della patente”. “Alla Camera si è discusso a lungo se e come modificare le pene accessorie per impedire all’ubriaco che travolge e uccide di tornare al volante per il resto della vita. Gli stessi parlamentari allora si sono fermati. Piuttosto che scalfire il principio fondativo del sistema, con tutti i rischi del caso, hanno scartato la misura perpetua e optato per un norma che limita a 10-15 anni la negazione di quel diritto”. E il giudice ribadisce: “Così stanno le cose, salvo non ci si voglia davvero avventurare in un cambiamento di norme che passa però attraverso un cambiamento culturale profondo e difficile”.

Stando all’oggi, cosa impedisce all’infermiera killer di rientrare un giorno in corsia? Non si può stabilire che possa fare tutti i mestieri “tranne quello”? Impedire all’ex pedofilo di entrare ai giardinetti? “Intanto diciamo che esistono forme di interdizione. In molti settori, ad esempio, non si può essere assunti o fare concorsi se c’è stata una condanna per certi reati. Abbiamo poi dei piccoli accorgimenti, ad esempio mandiamo uno in un luogo distante da quello in cui ha commesso il reato”. Ma anche qui molte norme scrivono così e poi dicono “salvo che sia intervenuta la riabilitazione“. “Una soluzione – ma ribadisco, vale come ipotesi di scuola – potrebbe essere ipotizzare una conseguenza perpetua ma limitatamente a specifiche attività o luoghi. Ma andrebbe a scalfire il ‘principio’ con il rischio di piegare la giustizia a ragioni che stanno fuori dal contesto giuridico e per questo potrebbero essere condizionate dalle pressioni dell’opinione pubblica e dello stigma sociale”.

E allora, che Scattone insegni pure? “Io la penso così. Uno può dichiararsi innocente, ma deve accettare, se è un cittadino pienamente responsabile, le conseguenze della condanna anche se ingiusta. Se vuole rientrare nella legalità ed avere il rispetto pieno, deve anche accettare le consegue che derivano sugli altri dalla sua condanna quantunque ingiusta. Dirò di più: il suo grado di rieducazione si misura anche dalla sua capacità di accettare le conseguenze di una ingiustizia che ha subito. E’ ovvio che questo attiene alla sfera della sensibilità del condannato rieducato. Sta a lui capire che deve evitare di creare situazioni di imbarazzo sociale o di quanti ritengano inopportuno che torni a insegnare, in primis i parenti delle vittime. E Scattone, alla fine, l’ha capito”. Forse fuori tempo massimo.

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