Di fronte a sciagure epocali, senza rimedi affidabili e dalle cause insondabili, la natura umana tende a concepire rimedi astrusi, come la danza della pioggia o il mercurio contro la peste. Pur tra i gorghi della crisi che gonfia umori nefasti e ribellismo salottiero, il ruolo dello stregone, del cerusico e del banchiere centrale sembrerebbero distinti. Nondimeno talora si mescolano perversamente attese di sortilegi e politica monetaria.

In un regime di moneta fiduciaria (il cui valore non è legato a un bene fisico come l’oro) la Banca centrale può legalmente creare moneta con un clic di mouse (gli economisti, mutuando l’esortativo dalla Genesi, la definiscono fiat money). Quando entra in circolo la massa monetaria i casi sono due: o viene spesa in consumi o viene tesaurizzata. Cominciamo dai consumi e con riferimento all’Italia esaminiamo quattro casi stilizzati.
1) Se della spesa aggiuntiva beneficiassero beni e servizi prodotti in un mercato domestico concorrenziale ed esistesse capacità produttiva inutilizzata, allora si imprimerebbe un impulso temporaneo alla crescita (questa è l’ipotesi su cui si concentrano i keynesiani).
2) Se il mercato interno fosse oligopolistico (o addirittura monopolisitico) l’effetto si scaricherebbe in parte sulla produzione e per il resto sui prezzi.
3) Se la capacità produttiva fosse al limite si genererebbe inflazione (questo è il caso esposto dalla teoria quantitativa della moneta).
4) Se i beni e i servizi acquistati con le banconote fruscianti fossero prodotti in un mercato concorrenziale globale potrebbe verificarsi che le imprese italiane non fossero in grado di competere con quelle straniere (a causa di imposteburocrazia, infrastrutture eccetera) e quindi si avrebbe un aumento delle importazioni (quindi del debito estero) e una caduta del Pil (questa è grosso modo la situazione in cui versa la Grecia). In concreto, se i consumi aggiuntivi riguardassero smart phone e televisori, l’industria italiana rimarrebbe al palo. Qualche vantaggio lo godrebbero distributori e rivenditori.

E se la manna monetaria venisse invece tesaurizzata? I casi sono due.
1) Il risparmio aggiuntivo potrebbe stimolare gli investimenti, grazie ai minori tassi di interesse. Ma qui entrano in gioco i meccanismi dell’economia reale. Se tecnologia, innovazione, nuove infrastrutture o nuovi mercati offrissero delle opportunità ragionevoli di profitto, le imprese approfitterebbero dell’opportunità per raccogliere capitali, lanciare nuove iniziative e assumere personale.
2) Se al contrario i profitti attesi fossero esigui, incerti o addirittura negativi perché tecnologie nuove non se ne vedono, permessi e lacciuoli per nuove fabbriche richiedono un calvario di anni (e di tangenti), appena si muove un dito arriva la Finanza (quella in divisa) e metà della busta paga viene espropriata, allora le imprese si accontenterebbero di vivacchiare (o investirebbero all’estero). Pertanto la massa monetaria andrebbe a impattare non sui prezzi al consumo (inflazione), bensì sui prezzi delle attività finanziarie e sui bilanci degli intermediari gonfiando una bolla le cui avvisaglie (e spesso le conferme) non mancano.

I casi sopra elencati possono verificarsi contemporaneamente e con varia intensità in settori o paesi diversi, ma ciò che rileva è la loro magnitudine relativa. Sappiamo che l’immissione di liquidità avviene attraverso gli intermediari finanziari e pertanto il meccanismo di trasmissione dipende dal comportamento di coloro che beneficiano dell’acquisto di titoli da parte della Bce. Le banche sono inchiodate dai crediti inesigibili, da ircocervi di regole prudenziali e dalla mancanza di capitale proprio. Le imprese sono paralizzate dal Moloch burocratico statale, dall’incertezza e dal credit crunch.

Quindi se i governi non affrontano questi nodi, il meccanismo di trasmissione del Qe rimarrà inceppato come è successo con il Ltro e come succede in Giappone da 25 anni. Né vanno riposte soverchie speranze nella svalutazione dell’euro. La moneta unica scende da un anno ma la quota di mercato americana in Europa e quella europea in America rimangono pressoché costanti. Analogamente lo yen si svaluta da due anni e mezzo sul dollaro con effetti quasi nulli sulle quote di mercato. Certo cambiano i profitti delle multinazionali, ma non è affatto sicuro che tali profitti siano reinvestiti in attività reali. Insomma, senza rimuovere gli ostacoli che impediscono il decollo delle attività produttive, il Qe rischia di trasformarsi principalmente in un gigantesco programma di anestetizzazione dei mercati finanziari e distorsione dei corsi. Su questo punto è lo stesso Draghi a insistere a ogni occasione. Sull’Italia ha specificamente riaffermato che il venticello di ripresa è dovuto a fattori temporanei destinati a dissiparsi. Non è chiaro se tale predica riesca a far breccia in governi imbelli o furbastri, cui il Qe ha tolto temporaneamente le castagne dal falò.

Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 22 aprile

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